Spesso ci invitano a ragionare su chi siamo veramente. Veramente, che parola ingombrante, eh? Come se non si potesse più tornare indietro una volta che dalla rosa degli aggettivi ne abbiamo scelti cinque. Sono momenti come questi, con le serrande abbassate per tenere fuori il caldo, il ventilatore dritto sulla cervicale e la smania di vivere che mi ronza intorno come le zanzare, che mi sento vicino a Socrate. O vabbè insomma al Socrate letterario che si pronuncia con quella sua ignoranza irritante sulla verità, dicendo una cosa che se non fosse stata resa elegante, sarebbe stata “Ma non mi rompete il cazzo dai, ma che ne so, piuttosto che vivere in un mondo di prepotenze sulla verità, io dico la mia e poi me ne vado a salutare gli antenati con un bel frullato vegano alla cicuta.”

La verità è un concetto irritante un po’ come la fede quando non porta ragioni ma pretese. La verità su qualunque cosa intendo, su noi stessi, sulla felicità, sulle relazioni, su come tutto questo si intrecci per alcuni, per altri no, per altri esiste solo la montagna, la Roma, il marito, il giardinaggio, i frullati. Ognuno sembra doversi fare carico di portare un fuoco più sacro degli altri, col quale illuminare di significato ogni momento. Ogni singolo istante deve avere significato se no non è vero che stai vivendo, però esiste anche la fazione del lasciare scorrere tutto come se fossimo nutrie nel fiume che nuotano a dorso, o la fazione dei moderati, per carità, solo che anche loro poi finiscono per essere fideistici con questa cosa del giusto equilibrio tra le parti.

Come se io con il mio pc hp del 2001 che fa il ronzio di un elicottero, fossi meno irritante e presuntuosa, qui cercando di uscire in quattro righe da millenni di lotte all’ultima parola sul concetto di verità. Il punto forse è questo, che siamo tutti colpevoli. Colpevoli di non saper sopportare il vuoto, la mancanza di senso e le domande. O magari a parole siamo i migliori della classe, ma poi ci facciamo i piantini sotto la doccia e allora vaffanculo.

Tutti, ma tutti tutti, pure tu sicuramente, passi la vita a cercare il significato della vita e delle azioni, spostandoti da una certezza a un’altra, da una verità parziale ad un’altra proprio come vuole il metodo scientifico, da un amore ad un altro, cambiando taglio di capelli, casa, amici, quadri alle pareti, fiori nei vasi. E ogni volta che ti sembra di averci capito qualcosa di quella verità, ti appassioni, rompi i coglioni agli altri su quanto è bella la tua verità. Poi quella verità si rompe e come si fa di solito, momento dopo momento, passi alla prossima. Anche la verità del dolore può essere una scoperta, quella dei disturbi alimentari anche, del panico, della paranoia, insomma di tutto quello che vi capita di pensare, non per forza felice, solo dai confini netti. Vorrei sapere chi, almeno un giorno della sua vita, non si è alzato dal letto urlando all’universo “ditemi solo che devo fare, come lo devo fare e io lo faccio basta che ve state tutti calmi“.

Per questo ci affezioniamo alla routine e volte ci affoghiamo pure dentro, per amore di verità, per paura del non sapere. Siamo colpevoli anche di questo? No ma va, però ne siamo responsabili. In qualche modo siamo “veramente” costretti a trovare dei punti di appiglio per quando si fa tutto buio. Almeno su questo mi sembra di essere serena nello schierarmi, cioè che tanto vale lasciare che si faccia ogni tanto tutto buio , piuttosto che ostinarci a darci fuoco da soli pur di fare luce. Da quella ostinazione viene la rabbia per il mondo e una miriade di cose psicosomatiche che in un mondo già difficile, potremmo pure risparmiarci e farci un pianto in più. Capisco che anche la gastrite possa tenere compagnia, ma ricordatevi come si addormentano in pace i bambini dopo che si sono disperati (spesso senza motivo ma intensamente) e date al piantino una seconda chance.

Sì vabbè, ma oltre a sto piantino, quando mi pare che si fa tutto quanto buio, io che cosa devo fare? Perché insomma anche queste sono solo parole buttate lì, niente di nuovo.

Già.

Come mi ha detto una ragazza in studio, riportandomi un libro sulle emozioni che le avevo prestato: “Ma qui non c’è niente, non dice se io sono triste come devo fare a non essere triste.”

Già.

Diffida da chi te lo dice come si fa, Socrate l’avrebbe messa così.

Forse, forse eh, ognuno ha il suo sgabuzzino buio brutto con dentro i fantasmi, i ragni, le scatole con i ricordi chiuse a tripla mandata. Forse in ognuno c’è una lampadina, piccola, di quelle che pendono, arrugginite, che fanno pure contatto. Forse per ognuno è fatta di parti che abbiamo da quando siamo molto piccoli, fatta di cose piccole e inutili per qualcun altro. C’è chi si ricorda dell’esistenza delle coccinelle, chi sistema l’armadio o sposta i mobili, chi effettivamente (beati voi) riesce a perdersi in un libro proprio quando serve, chi va a correre, chi si chiude in camera con la musica non importa se l’adolescenza è finita da 50 anni. Ognuno di noi, forse, dovrebbe ricordarsi di almeno due o tre cose che se fare completamente da solo e che lo illuminano come un fiammifero nella bufera ma lo illuminano quel secondo, e si sente. I più in gamba per me sono quelli che suonano uno strumento o dipingono o sanno usare programmi pazzeschi con cui fare cose, come lo sono gli artigiani, tutti. Però credo che poi uno a se stesso si abitua, per cui inutile dire così, le verità degli altri sono abbaglianti più per noi che per gli altri.

Senza accorgermene ho provato a fare come si fa di solito, a essere per forza costruttiva per gli altri, e invece no, fanno quaranta gradi, ho dovuto spegnere il ventilatore perché fa casino e il nervosismo mi è salito di vari gradi. Preferisco farmi un giretto alle poste e litigare con qualcuno, che risultare troppo cinica o troppo confortante. Mi piace essere confortante perché è come faccio con me per non vivere sempre male, però penso sia più saggio riconsegnare la riflessione a chi la vuole e che ognuno controlli la lampadina se per caso si trova nello sgabuzzino e vede tutto buio.

Direi che nessuno si salva del tutto da solo, che nessuno si salva solo attraverso gli altri, che i modi di salvarsi sono tanti, che ci pensiamo così tanto spesso, che spesso non ci ricordiamo nemmeno più da che cazzo stiamo provando a salvarci. Credo dalla solitudine e credo che quella lampadina sia importante.

La mia si è accesa in alcune occasioni diverse, non chissà quante, le potrei contare. L’ultima su un volo di ritorno da un viaggio andato male, per fortuna lato finestrino così l’assolo di piantino non ha trovato imbarazzi. Atterraggio da incubo rumorosissimo, gente che si attacca ai braccioli, una signora che inizia con omiodioooo, qualcuno incazzato, un paio di turisti tedeschi chissà cosa dicono, io mi risveglio dal torpore e dentro penso solo “eccolo er duro scontro co’ la realtà” e mi viene da ridere, e rido da sola. Mi sono riconosciuta qualcosa che non ha bisogno di nessuno, di farmi ridere da sola se proprio serve, di tenermi compagnia se proprio serve. E volte serve. E per un attimo c’è la luce e mi faccio tenerezza, e per un attimo passa tutto, tranne quella lucetta che non passa mai.

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