Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

La posta di Olimpia-Ho 24 anni e non mi hanno mai amata

Cara Olimpia,

ti scrivo da un giorno di ordinaria disperazione, anzi no: almeno per oggi non è poi così tanto ordinaria, se non altro per il motivo. Sto aspettando la risposta di un messaggio mandato a un mio “amico”, che ha deciso di andarsene nel bel mezzo della conversazione, chissà a fare che: lo spuntino della mezzanotte, pisciare? Tutto può essere. Ho sempre avuto per lui un interesse che va aldilà dell’amicizia. Lui lo sa, perché io gliel’ho detto, ma non corrisponde (?) e l’amicizia continua – spero che tu capisca il mio punto di domanda, corrispondere, non corrispondere, che significa poi? – ora mi ha risposto e vado a vedere. Solo un minutino, però, per far attendere anche lui, mi sembra abbastanza giusto. Non sono mai stata fidanzata, ho 24 anni. Ho mai amato? Beh, questa è più complessa, ma ti direi di si, in forme più sottili, certo, nascoste, mai palesi, ma profonde. Forse ho amato anche molto, dall’interno di un buco nero dove nessuno poteva vedermi. Ho amato nel silenzio, e come accade in questi casi non sono stata ricambiata, e ho perso un po’ la speranza. L’ho persa un po’ del tutto. I. – si chiama così – è l’unico che continua ad abitare i miei sogni, ma aspetta un attimo, devo rispondergli, o diventerà tardi.

E voilà, ha risposto qualcosa che non doveva rispondere. Non importa. È un egocentrico triste che non ammette di esserlo, ed è un sogno che ormai puzza di muffa. Cinque anni sono troppi per un sogno così. E dunque io rimango qui, nella mia cameretta di casa, in attesa di un nuovo giorno per deprimermi. Come si trasforma la paura in voglia, Olimpia? Volevo chiederti questo. Come si rende il tempo un alleato per se stessi? Io sono sempre stata una grande sognatrice, ho sognato talmente tanto che qualche volta mi sento stanca dei miei sogni. Ma la mia immaginazione va da sé, è l’unica parte di me che non si esaurisce mai, insieme alla tristezza. Un connubio fatale.

Mentre immaginazione e tristezza volavano ho fatto l’università di psicologia, con buoni risultati. Ora sto per laurearmi, e poi non so assolutamente quale delle tante sfaccettature della professione “psicologo” vorrò intraprendere. Per ora so solo che ho scelto la psicologia del lavoro e che mi fa schifo – è la prima volta che lo dico così apertamente sai? Nel frattempo cerco di capire quanto la mia infelicità potrà impedirmi di svolgere bene il lavoro che ho scelto.

I sogni sono sempre stati la cosa più bella che ho mai avuto. Eppure questa mattina mi sono svegliata, e ho pensato che sognare era uguale a morire, perché mentre sogni la vita va avanti senza che tu la stia vivendo. Che 24 anni sono pochi per morire, e dovrei iniziare a vivere. E indovina? Non sapevo da dove iniziare. Non consigliarmi uno psicologo, ci vado già da sette mesi e anche se non sembra abbiamo fatto progressi.  Da qualche parte ho letto che le nostre azioni dovrebbero assomigliare più ai nostri sogni che alle nostre paure, e da quel giorno ho paura anche un po’ di sognare. Da dove si inizia? Tu hai scritto in un tuo post che ti è successo quello che succede a tutti: il tempo. Ti devo correggere: con me non ha funzionato neanche lui.

Un abbraccio,

A.

P.s. Mi piace il tuo blog, il nome Olimpia e la posta del cuore: mi ha ricordato che è bello scrivere a qualcuno che non conosci affatto. Mi piaci tu perché hai l’aria di una che ce l’ha fatta, pur conservando tutta la sua normalità e le sue “nevrosi” (passami il termine, non sono nemmeno sicura di sapere bene che cosa significhi ma ci stava proprio bene).

Cara A.,

quando ho avuto questa idea non volevo commuovermi così alla prima botta e lo accetto giusto perché soffro di congiuntivite cronica e l’umidità un po’ aiuta.

Io penso spesso che quando non sai da dove cominciare allora tocca cominciare dalla fine. Purtroppo sono figlia unica quindi ho il vizio di fraternizzare e sorellizzare con chiunque si faccia delle domande che hanno già tolto il sonno a me e perdonami se con te farò lo stesso.

Il tempo inizia a funzionare quando noi cominciamo a romperci le palle di essere come pensiamo di essere e gridiamo basta da un punto così profondo che farebbe uscire l’acqua dal deserto, gli incatenati dalla caverna di Platone e quello spezzatino venuto troppo piccante che tengo in fondo al freezer dal 2008. E secondo me tu ci stai cominciando a stare stretta in quel buco nero nero dove nessuno può vederti. Sai, le cose brillano alla luce, nell’ombra si confondono con i muri quindi staccatici subito perché non sei un cartonicino da parati.

Anche se ti consiglio comunque di vedere questo film che mi è tornato in mente mentre scrivevo “muro”: https://it.wikipedia.org/wiki/Ragazzo_da_parete

Ecco, quando non ne possiamo più di fare sempre nello stesso modo, il tempo diventa nostro alleato perché ci fermiamo ad invertire la rotta invece di lasciarlo scorrere come se stessimo su un tapis roulant. Finché aspettiamo solo un minutino per rispondere a un messaggio e una vita per rispondere a noi stessi corriamo veramente il rischio che diventi tardi. Pensaci, chi sta facendo aspettare chi? Tu il tuo amico oppure la parte che s’è rotta er cazzo de sta’ male aspetta l’altra? Le risposte giuste non compariranno sui nostri telefoni finché sbagliamo le domande e che lo spirito di Kant mi fulmini alle spalle se sto usando male i concetti della filosofia. A tal altro proposito c’è un altro film, preso da un libro che si chiama Guida intergalattica per autostoppisti in cui ad un certo punto viene costruito un grande computer che deve rispondere alla domanda sull’universo, la vita e tutto quanto il resto. The big pc dice che che tra un trilione di anni avrà pronta la risposta. L’umanità tutta si riunisce quel giorno lontano, con trombette e cappellini e tutti in festa quando ecco che la macchina risponde: La risposta all’universo, la vita e tutto il resto è…42! Che cosaaa gridano tutti e the big risponde eh vabbè regà, ma che domanda m’avete fatto pure voi però! Spero di aver reso almeno un pochettino.

Le tue domande sono splendide e curano i miei occhi secchi, però le dobbiamo formulare diverse. Proviamo con che cosa ti aspettavi dall’amore quando eri bambina e come doveva essere il tuo principe ranocchio? Te lo ricordi baby? Perché mi ci scommetto le metaforiche palle che non era certo un egoista triste e un po’ ammuffito. Il poco che ho capito sulle verità dell’amore credo che stia proprio nella corrispondenza (o rispondenza anche), come a dire io ti penso mentre tu mi pensi e sorridiamo insieme perché lo facciamo nello stesso momento.

Tante volte pensiamo che il nostro essere buoni, comprensivi e tendenti alla santità farà in modo che gli altri ad un certo ci ringrazino per il tanto cuore. Invece gli altri cominciano a volerci quando impariamo a dire no e quando smettiamo di aspettare quella redenzione che è compito solo nostro e non dei principi, nemmeno di quelli incoronati, giuro.

24 anni non sono tanti ma non sono nemmeno pochi, probabilmente sono giusti. Quando li avevo io, ho cominciato a vestirmi come una fanciulla e non solo da maschiaccio ma non basterà una vita per insegnarmi a scegliere bene le scarpe e forse nemmeno i fidanzati. Ma io so che le generazioni dopo la mia possono andare più veloci, quindi ti voglio cazzuta e stanca morta della gente moscia per quando spegnerai le candeline di mezzo secolo su questo strano mondo.

La paura si trasforma in voglia e si trasforma in coraggio nell’esatto momento in cui iniziamo a dire basta e ci rimbocchiamo le maniche correndo il rischio che lo facciamo per sentire meglio il vento sulla pelle e non perché stiamo faticando come schiavi nel campo di cotone. Però il requisito fondamentale per costruire il coraggio è proprio quello di cagarsi prima sotto e pensare di non farcela. Vuoi mettere il gusto di stupirsi veramente di essere non cambiati ma solo diventati fedeli alla parte di noi stessi che ci dorme addosso da un sacco di tempo.

Quella cosa tanto bella che hai detto sul sognare e sul morire è il monologo di Amleto. Ehssì, er famosissmo pippone sull’essere e il non essere. Shakespeare glielo faceva dire mettendo bene in risalto che se avessimo coscienza di quello che ci aspetta dall’altra parte, allora ci pianteremmo una coltellata tra le costole visti, sopratutto, gli spasimi dell’amore disprezzato. Ma siccome non ce l’abbiamo tanto vale arrendersi alla sfiga e continuare a soffrire da codardi. Però oh, il principe di Danimarca era un depressone maledetto e comunque aveva avuto una vita di merda e recitava queste cose con un teschio in mano.

Tu invece hai una vita in mano, vedi di stringertela addosso senza permettere che ti tolga il respiro. Esci mia cara A., perché se c’è qualcuno che ti sta aspettando è solo il tuo specchio che vuole vedere come impari a sorridere senza prenderci troppo gusto nella tristezza, che poi ti ci perdi dentro e pensi di meritarti solo quella.

P.S. Dal profondissimo del mio cuore ti voglio dire che i migliori psicologi sono quelli che del dolore ne sanno qualche cosa, altrimenti come faremmo a capire quello degli altri? 

P.P.S. Nevroticona fino al midollo, qualunque cosa voglia dire, qualunque cosa abbia a che vedere con l’essere sempre a un passo dall’essere arrivati perché non c’è niente di più fermo della perfezione.

Sei una cuoriciona, comincia a distribuirti a chi ti cor-risponde, secondo me sei pronta.

Olimpia

Raccontini-Over&Out

OVER & OUT

(Codice di fine trasmissione nella procedura radiotelefonica)

Non pensava che le cose potessero andare così, si guardò intorno con aria sconsolata e si incamminò verso l’uscita.”

Ecco, un buon narratore l’avrebbe descritta così: dall’alto. Invece lei ci sta ancora dentro a quella cucina assurda, coi ritagli di giornale che gridano ribellione attaccati al frigo, l’orologio fermo all’ora legale in pieno inverno e quella patetica cerata sul tavolo con disegnate le ricette regionali dell’Umbria. Però è vero che non l’avrebbe immaginato mai. Quando l’aveva conosciuto lui era brutto ed era pure stronzo. Di una stronzaggine grossolana, da sportellista di un ufficio pubblico in ora di chiusura. E si vestiva male: la prima volta portava un maglione arancione con le trecce. In prospettiva si sarebbe presa a schiaffi da sola, negli infiniti dormiveglia sudaticci, per non aver riconosciuto il diavolo anche solo da quel particolare, in quel dettaglio di cattivo gusto che già di per sé valeva un pugno. In un occhio.

Ma quest’ultimo punto odora già di presa coscienza, mea culpa e futuro, torniamo in cucina: piove e lui le offre persino un bicchiere di vino mentre, con quell’inflessione dialettale da romano di barzellette, le ripete: Io non so che ditte, nun te amo, capito? Io nun te amo.”

Gli esseri umani immaginano i graffi dell’amore in endecasillabi formali e dizione alla Vittorio Gassman che legge il menù.Mi prenderà le mani e, occhio nell’occhio, mi dirà che l’esistenza grava e riempie così tanto da non concedere il lusso di un amore. Mi dirà che la patria lo chiama a rispondere in un posto molto lontano, che la santità lo invita alla castità, che motivi familiari offuscano la sua anima, che la salute lo obbliga ad una clinica spirituale tibetana e non vorrebbe mai condannarmi ad una vita di monaci calvi e bacche secche. Mi dirà che il cane gli ha mangiato il quaderno in cui ci aveva disegnato il suo cuore. Pur sempre cagate ma, almeno, sonoramente ritmiche.

Gli esseri umani in fondo sperano di poter tornare a casa e piangere come nei film, strappando Kleenex (ma poi chi cazzo li ha mai comprati i kleenex?) da una scatola pronta sul comodino, mentre un’immaginaria radio ti regalaI can’t liiive, if living is withouuut you. Gli esseri umani sperano di poter cambiare la superficie e pure il fondo. È così aveva fatto anche lei, trasformando quel maglione orrendo in cotone fresco, le frasi da osteria in versi di un Neruda postumo. Ma la realtà, alla fantasia, je spacca sempre er culo, come proprio lui aveva detto una volta e lei, per ostinato spirito di contrarietà, quella realtà di egoismi rotondi, docce saltate e giochetti di potere l’aveva fatta diventare l’odore dell’estate, fiori dal cemento e indiscusso amore. La vigliaccheria in timidezza, diamanti dalla merda: ecco che cosa aveva fatto.

La pioggia aumentava, aumentava il battito, aumentavano le sigarette spente, l’orizzonte pareva un punto nero. E allora lei lo fa: si alza di scatto, mette le mani in tasca e tira fuori due evidenziatori abbandonati raccolti nel parcheggio, li sbatte sul tavolo e dice: Mettitici in evidenza sto cazzo, tanto scomparirai lo stesso. Esce di casa, le orecchie le fischiano, sbatte la porta, dio quanta pioggia, ha detto no. No al colesterolo cattivo, no a chi le ha detto di no, no all’arancione, al malamore, alle ricette regionali sbiadite, al vino scrauso. No era stata la sua prima parola, a sua nonna negli anni ottanta.

E no che non l’avrebbe fermata il portone del cancello chiuso a chiave, infatti lo scavalca, goffa come un ciccione alla maratona, ma ci riesce. Le formicolano le gambe per il salto mentre cerca le chiavi della macchina in una borsa enorme e piena di oggetti che al freddo delle mani non si lasciano distinguere. Entra nella scatola di latta con la gloria addosso di chi arriva secondo su due, la bellezza dei vinti col trucco sciolto a forma di panda, il cuore una briciola e il sorriso all’ingiù di chi, non sapendo che all’equazione mancava il fattore X, ha preferito mettere in dubbio se stessa pur di ottenere un risultato. Accende la radio e sbatte su tutti i tasti finché non smettono le parole e sente una melodia qualunque. Arrivata a casa dirà allo specchio che è stata bravissima, intanto alza il volume e

tremando e tremando forte,

lei ballerà sulle stelle accese e scoprirà,

scoprirà l’amore

l’amore disperato.

Disperato, oh“.