Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

Sulla sopravvalutazione del sonno e del tempo

“Cinque minuti al giorno per cui valga la pena alzarsi”, è stata questa la formula che mi accompagna da tanti anni, il compromesso che ho fatto con le giornate. Non mi ricordo quando è successo, credo in un giorno a cavallo tra una lunghissima adolescenza e una sconfinata giovinezza, ma di sicuro è successo perché mi sembrava la vita non avesse senso così come la vedevo. Il problema delle è che vengono sempre raccontate con frasette del cazzo tipo questa e successivamente imposte come soluzioni, trascurando il processo di risoluzioni e lunghissime equazioni. Il problema delle vite degli altri è che non sono le nostre vite, solo le vite degli altri. Bisognerebbe stare molto più attenti a calibrare un abito a misura unica a qualcosa che richiede il millimetraggio, ma l’altro problema delle vite degli altri, è che della nostra, se ne fregano. Però il problema alla base del problema, è che le nostre vite scivolano via nel tentativo di aggrapparci a qualche ricetta per la felicità. Vite passate a guardare altre vite, che a loro volta guardano altre vite, mentre il mondo fatto di informazioni che passano di bocca in bocca, di mano in mano, ci scaglia contro titoli di ricette senza nemmeno gli ingredienti.

Il segreto per il successo, il segreto per farli innamorare tutti, il segreto per guadagnare milioni di euro seduti sul divano, il segreto per mantenersi giovani, il segreto per avere denti perfetti. Ora, non credo di dire una novità se dico che il segreto, fintanto che lo trovi a caratteri cubitali su un quotidiano gratis, potrebbe non essere sto gran segreto ma solo un modo per far girare quell’informazione come un trottola impazzita di qua e di là, finché non arriva un altro segreto ancora più fico. C’è da dire che i segreti viaggiano in contemporanea e in contraddizione, abbiamo il segreto per il benessere che ci vuole non dico pigri, ma al nostro passo, insieme al segreto per laurearsi, cioè quello di non dormire più.

E lo so, lo so che le cose non stanno proprio così, ma voi avete idea di quante persone ho visto andare in crisi negli ultimi giorni per questa stronzata? Ragazzi indietro con l’università che già si sentivano falliti prima, ora di più, persone che hanno optato per un vita modesta, schiacciate dal peso di una notizia, persone arrabbiate con le notizia, come me.

Tutti abbiamo un’unica moneta in queste vite nostre o altrui, tutti abbiamo solo il tempo e tutto ciò che con il tempo ci possiamo fare, compreso perderlo. Vorrei solo che le persone stessero un po’ meno male, come desiderio professionale e in fondo anche un po’ come regola generale per stare al mondo, per questo ci tengo a dire la mia frasetta del cazzo pure io, che non è una regola, è solo un invito.

Vi invito a buttare il vostro tempo dalla finestra come l’acqua dei fiori, come le briciole dalla tovaglia, sempre, ogni giorno, buttate almeno un’ora al giorno. L’unica vera competizione è quella con se stessi, quella in cui competiamo con i nostri difetti, l’avidità è uno di questi.

Ma che cosa ci devo fare con la mia vita se non ne spreco almeno la metà a guardare fuori dalla finestra, a cercare le mosche mentre cerco di studiare, a fare le cose male, a farle quattro volte, a provare e fallire tante storie d’amore, a sbagliarmi sul conto degli amici, a rimanere senza soldi sul conto perché ho sbagliato a fare i conti di fine mese.

Il momento che ricordo con più tenerezza dell’università è stato quando ho buttato un semestre senza sapere manco perché, forse perché volevo buttarlo e basta, perché volevo uscire da me stessa, essere una persona diversa, quella che arriva tardi, quella che non ce la fa a fare tutto, come ricordo con tenerezza l’anno buttato prima di fare la psicoterapeuta perché avevo paura di non saperlo, volerlo, poterlo fare.

Io sono anche le cose che ho sprecato, sono i sogni che ho avuto, sono le ore passate la notte a cercare la pace, me stessa, le informazioni vitali su Google, le informazioni vitali sui forum degli ipocondriaci, le informazioni inutili che ho scritto nei messaggi a cui nessuno mi ha mai risposto, sono i viaggi che non ho fatto, sono i risultati che non ho raggiunto. Io, con tutta sincerità, vorrei morire piena di rimpianti, perché vorrebbe dire che ho sognato molto, che mi sono data tempo per farlo, che sono stata gentile con me stessa. Soprattutto vuol dire che sono stata umile con le mie giornate e con la vita stessa.

Il tempo si butta per amore, si butta per gli amici, si butta per i progetti e per le case che vanno in fiamme. Si butta perché non siamo macchine, si butta perché vivere con l’ansia di non dovere sprecare nemmeno un attimo, è uno stile di vita che non consiglierei a nessuno.

Se buttassimo un po’ di tempo avremmo più tempo per i tramonti, per mettere la tovaglia la sera invece che lo Scottex, tempo per stirarmi i calzini, tempo per piangere, tempo per litigare, voglio avere tanto tempo solo per sapere che lo posso buttare, perché il ricavo e il guadagno non sono la stessa cosa, perché tante persone sembrano andare così tanto di corsa che non sembrano più persone, ma caricature di come dovrebbe essere una persona.

Non è la ragazza, la sua laurea in medicina vera o fatta coi punti dell’Agip che sia, non è il suo essere modella o meno modella, questo scimmiottare l’ideale greco di bellezza intellettuale e di cosce, non è lei che io non conosco. Il dolore è sapere quanto tempo buttiamo a cercare di capire come non buttare manco un secondo, sapere che ci sono persone che non si permettono la stanchezza, i dubbi, le paure e una quantità di errori che sono belli perché sono sempre vita.

Non ho mai dormito più di 5 ore a notte, per nessun motivo specifico se non per abitudine e ansia. Cosa ci faccio con le mie notti? Ma assolutamente niente, aspetto che passino mentre fissando il soffitto penso alle mie cose, le sistemo nei cassettini che riaprirò la notte successiva, continuo dialoghi sospesi, mi alzo mi fumo una sigaretta poi ritorno a letto e poi mi sveglio stanca ma mi sveglio a casa. Ormai è casa l’insonnia come lo sono le occhiaie come lo sono questo mio cercare di incoraggiare gli altri non a fare peggio o meglio, ma incoraggiare a essere qualsiasi cosa, anche da buttare ogni tanto.

Serve un sacco di tempo per capire cosa farsene del tempo, servono molti difetti per sembrare umani, servono molti vuoti per far entrare gli altri. Serve anche farci qualcosa nel tempo che abbiamo a disposizione, ma non serve correre contro il tempo, serve organizzarlo. Solo che se pensiamo a come pensiamo di dover organizzare le nostre giornate, vediamo subito che quasi nessuno di noi lascia spazio a come è fatto, solo a come dovrebbe o vorrebbe essere fatto. Ed è così che milioni e milioni di risvegli partono col fallimento nel cuore, non mi sono allenato, non mi sono alzato alle 6, non ho cambiato il mondo nemmeno oggi.

La violenza di chi sente di sapere come fare le cose, la mia compresa, non la sopporto, però non potevo stare zitta mentre lì fuori c’è qualcuno che vuole farmi credere che io sia meno, che sia in ritardo, che il modo in cui cerco di vivere è un modo sbagliato. Non serve, io come credo molti, tendiamo a dircelo durante le nostre notti insonni, io come credo molti, poi ci svegliamo e cerchiamo di fare la cosa più difficile al mondo, le brave persone, o meglio le persone decenti, quelle che fanno i loro lavoro, sistemano ogni giorno la questione con la felicità, stupendosi ogni volta di come il tempo sia volato, anche quello che non passa mai, anche i 3 minuti di attesa della metro, anche quello del dolore, anche quello del “oddio ma come siamo amici da vent’anni, ma quand’é successo?”. Che il tempo voli via, veloce, veloce come quando ti diverti, che io non possa fare quasi niente di quello che voglio, così quando starà per scadere mi potrò dire “Che bella festa che è stata, per questo mi dispiace andarmene, però che bella festa.” E che per voi, lo stesso.

“Dedicato a tutti quelli che stanno scappando”

La frase che ho digitato su Google e che mi ha portato al tuo sito è stata: “se mi sono rotta le palle di tutto“.

Mi chiamo A., ho 49 anni e sono una Romana de Roma. Ma per raccontare un po’ di me inizio dalla fine, cioè da come mi sento negli ultimi anni.

Ogni giorno mi sveglio con una frase in testa “prima o poi finirà”. Mi riferisco a:

1) il mio lavoro, da impiegata statale presso un ufficio giudiziario… non di Roma, ma di Firenze. Il prossimo che mi dice: “bella Firenze, una città a misura d’uomo, i fiorentini sono simpatici!” gli sputo in un occhio. Odio la città e chi ci abita, non li sopporto più. Cambio anche canale se ne parlano in TV o alla radio. Però mi potrei dire: “va bene, dai, ma che ti frega“. Dopo aver passato la giornata davanti ad un PC, in un ambiente demotivato, dove non hai stimoli, dove dopo 26 anni dovessi scrivere un CV non saprei che razza di competenze indicare come acquisite, dopo aver fatto Fantozzi davanti al lettore badge, te ne torni a casa tranquilla! No. E passo al punto 2);

2) Non riesco nemmeno a dire: “vado a casa“. dico: “vado su“, perché non mi  sento a casa.

Divorziata per decisione mia (su questo ci vorrebbe una lettera a parte), convivo con un nuovo compagno che ha solo due difetti: due figli, di 12 e 15 anni che con me non hanno nessun problema. Sono io ad averne che, da convinta “childfree”, non sopporto la loro presenza che la vivo come un’invasione del mio spazio. Io non pretendo che non ci siano, per carità, ma non viene capito nemmeno il perché io me ne vada i weekend che toccano a lui: non mi sembra difficile da capire. Non ho voluto e non voglio la famigliola e tutte le rotture connesse e quindi mi levo dalle scatole. Mica ti dico di non starci! Stacci, ma non pretendere da me altrettanto! In poche parole io non mi sento a casa da NESSUNA parte, ho bisogno di trovare il mio posto. 

Ci sono tantissime altre sensazioni di merda che ho addosso provocate dal divorzio, dal mio gatto che non c’è più, dai sensi di colpa, dal sapere di aver deluso, dall’insoddisfazione, dal non vedere luce, dall’aver sopportato dei sacrifici enormi, dal non avere una vita mia. Mi sembra sempre di stare ad aspettare i cazzi degli altri e a vedere la mia vita scorrere. In attesa di che???? Il risultato è che sono ARRABBIATA fissa. Proprio perché non mi riconosco più in questo stato d’animo (ho fatto e faccio anche cose belle: ho viaggiato tantissimo, non vado più in palestra, ma mi alleno da sola perché amo il movimento, mi piace studiare le lingue, la storia e l’arte) sono stanca di esserlo perché sfinisce. Non avere un posto mio, mi fa stare perennemente male. Ultimamente ho iniziato ad imprecare a voce alta, quando sto da sola, dico parolacce, sbatto le cose. 

Sto scrivendo, forse, con la speranza di sentirmi dire una cosa diversa da “non hai pazienza, i posti di lavoro sono tutti così, di che ti lamenti, stai a Firenze, mica stai in capo al mondo, i ragazzi crescono“. Tutte scelte che ho fatto io eh, sia ben chiaro, ma se accenno ad un cambiamento… TRAGEDIA! Sei matta a lasciare un posto fisso! Sei matta a tornare e poi stai da sola, lontana da G.! Non lo so, ma penso di poter sopravvivere. 

Non so se mai mi risponderai anche perché non so nemmeno cosa ci sia da rispondere, però continuerò a seguirti sul suo blog perché mi diverto!

Tanti cari saluti e… sempre forza Roma!

PS il mio compagno è pure Laziale… e nun c’ho pazienza! Mah.

A.

Cara la mia romana de Roma, partiamo dalla fine. Io non so tifosa però so cresciuta a Testaccio e quindi sento l’obbligo morale, quindi sì, forza Roma. E proprio dalla fine partirei anche con la versione seria sul quesito che ti poni: ma che ce stai a fa co’ uno della Lazio? Che c’hai da sconta’? Che hai fatto che te stai a puni’ così tanto?

Il titolo che mi è venuto in mente è la dedica di un film di Salvatores, Mediterraneo, che se per caso non avessi visto, te lo consiglio perché è molto bello. Ma la verità è che il quesito che tu ti poni penso sia la domanda più preziosa con cui abbiamo a che fare, ossia “NDO CAZZO STA CASA MIA”. Insieme a questo ne poni un altro, altrettanto sacro, la domanda da un bilione di anni, è più coraggioso chi se ne va o chi rimane?”. Quel tipo di domanda su cui si è costruita l’umanità: annamo a vive in città invece che in campagna? Dipingemo le mucche sui muri oppure annamo a caccia’? Lo lascio o non lo lascio, essere o non essere, mettere radici con i figli o viaggiare sempre, allontanarsi dai genitori o prendersi cura di loro, uscire o stare a casa, soffrire o fare finta di no, lasciarsi andare oppure no, aprire un baretto del cazzo in Messico e continuare a timbrare il cartellino. Insomma mo’ non so se è un delirio estivo, però mia cara te giuro che me pare tipo LA DOMANDA. Solo per questo penso manchi LA RISPOSTA. Perché non ce ne sta una ma mezzo milione.

Ricordo in ordine sparso: mia madre che negli anni 90 si fa fare una t shirt da un’amica con su scritto “M’avete stufato tutti quanti“, la prima volta che vidi Un giorno di ordinaria follia con Michael Douglas e quando lui si alza dalla macchina io mi alzo dal divano e batto le mani, la prima volta che capii che i barboni schizofrenici a modo loro dicono tante verità quando se la prendono con tutti, i film di fuga dalle prigioni TUTTI QUANTI, Riusciranno i nostri eroi co’ Alberto Sordi, la prima scena, l’ultima ma pure quelle in mezzo, il conte di Montecristo che ci mette mi pare un ventennio a capire come uscire e vendicarsi, la prima volta che sentii parlare delle feste di divorzio. Questa lista a casaccio per dirti ancora quanto penso tu porti con te la chiave di una vita nuova, sia che tu rimanga sia che tu non lo faccia. Se rimani però serve capire il senso profondo del tuo sacrificio, paura della solitudine (ce l’avemo tutti), paura di tornare a casa, paura di ricominciare (sicura? l’hai già fatto una volta e santo cielo non sarà stato facile ma eri sempre tu), paura che sia troppo tardi perché si vabbè la vita comincia 50 anni solo sui libri di auto aiuto.

La rabbia è l’unica emozione corretta quando sentiamo di non essere ascoltati e sentiamo le ingiustizie, nel senso che è allo stesso tempo una risposta sana e una risposta demmerda perché poi si espande a macchia d’olio e qualsiasi mondo (i fiorentini che conosco so tanto carucci giuro però certo è una città ingombrante da un punto di vista di identità, esattamente come la nostra) finisce per sembrare ostile. Si espande sulle cose più piccole, finisce l’insalata che ci piace al supermercato e ci pare di essere perseguitati dal destino, sbatti il mignolo del piede sulla porta e ti viene voglia di abbattere tutta la casa, ti ritrovi i nodi nei capelli sotto la doccia e ti viene da piangere e piangi come dice De Andrè sotto la doccia, perché uno rimane arrabbiato solo perché quando si concede di non esserlo, sente dentro un oceano così grande, ma così grande che non esiste una diga che lo contenga, e allora se lo tiene e la marea cresce ogni giorno, regalandoci qualche tsunami come forse quello di quel giorno che hai detto a Google che non ce la stavi a fa più.

Sai di cosa sarei curiosa, di sapere chi è che dice TRAGEDIA, chi è che ti dice che ma ndo vai? Se sei anche tu che lo dici certo è un conto, se sono gli altri, i cari, quelli che ti conoscono, che ti vogliono bene, che tifano per te ma che non sono te, beh, non sono te. E queste, “signora mia” sono cose che in fondo uno può negoziare solamente con se stesso.

Sai che potresti fa, oltre a pensare che la parola coraggio viene da cuore (quando si dice ascolta il tuo cuore e tutte quelle fregnacce) compiere un piccolo grande atto di fuga e ribellione e vedere come ti trovi, se ti senti a casa nel dire no grazie non ci sono quei giorni sono in un rifugio benedettino in val di boh. Casa dicono è dove sta il cuore, non ho mai capito cosa si intenda, credo i cari che amiamo, però l’amore non basta e quindi la cosa si complica. Quello che so è che ogni volta che ho chiamato qualcosa o qualcuno casa, l’ho sentito quando ci sono entrata e mai prima.

Ti piace quello che vedi dalla finestra la mattina quando ti alzi, ti piace quella luce, quello che vedi? Ti auguro di ritrovarla la casa, nel frattempo come i paguri, la casetta un po’ ce la portiamo dentro, pure questa è na banalità, però una de quelle che me fanno sempre piagne.

Una delle mie canzoni preferite da ragazzetta era la storia di questa tipa che mollava tutto, vendeva tutto, se metteva in macchina da sola con la musica e se n’annava senza guardare nello specchietto. Quindi scusa se forse ci ho messo troppo del mio, però credo davvero che tu sia tutti noi.

There is a light that never goes out

Spesso ci invitano a ragionare su chi siamo veramente. Veramente, che parola ingombrante, eh? Come se non si potesse più tornare indietro una volta che dalla rosa degli aggettivi ne abbiamo scelti cinque. Sono momenti come questi, con le serrande abbassate per tenere fuori il caldo, il ventilatore dritto sulla cervicale e la smania di vivere che mi ronza intorno come le zanzare, che mi sento vicino a Socrate. O vabbè insomma al Socrate letterario che si pronuncia con quella sua ignoranza irritante sulla verità, dicendo una cosa che se non fosse stata resa elegante, sarebbe stata “Ma non mi rompete il cazzo dai, ma che ne so, piuttosto che vivere in un mondo di prepotenze sulla verità, io dico la mia e poi me ne vado a salutare gli antenati con un bel frullato vegano alla cicuta.”

La verità è un concetto irritante un po’ come la fede quando non porta ragioni ma pretese. La verità su qualunque cosa intendo, su noi stessi, sulla felicità, sulle relazioni, su come tutto questo si intrecci per alcuni, per altri no, per altri esiste solo la montagna, la Roma, il marito, il giardinaggio, i frullati. Ognuno sembra doversi fare carico di portare un fuoco più sacro degli altri, col quale illuminare di significato ogni momento. Ogni singolo istante deve avere significato se no non è vero che stai vivendo, però esiste anche la fazione del lasciare scorrere tutto come se fossimo nutrie nel fiume che nuotano a dorso, o la fazione dei moderati, per carità, solo che anche loro poi finiscono per essere fideistici con questa cosa del giusto equilibrio tra le parti.

Come se io con il mio pc hp del 2001 che fa il ronzio di un elicottero, fossi meno irritante e presuntuosa, qui cercando di uscire in quattro righe da millenni di lotte all’ultima parola sul concetto di verità. Il punto forse è questo, che siamo tutti colpevoli. Colpevoli di non saper sopportare il vuoto, la mancanza di senso e le domande. O magari a parole siamo i migliori della classe, ma poi ci facciamo i piantini sotto la doccia e allora vaffanculo.

Tutti, ma tutti tutti, pure tu sicuramente, passi la vita a cercare il significato della vita e delle azioni, spostandoti da una certezza a un’altra, da una verità parziale ad un’altra proprio come vuole il metodo scientifico, da un amore ad un altro, cambiando taglio di capelli, casa, amici, quadri alle pareti, fiori nei vasi. E ogni volta che ti sembra di averci capito qualcosa di quella verità, ti appassioni, rompi i coglioni agli altri su quanto è bella la tua verità. Poi quella verità si rompe e come si fa di solito, momento dopo momento, passi alla prossima. Anche la verità del dolore può essere una scoperta, quella dei disturbi alimentari anche, del panico, della paranoia, insomma di tutto quello che vi capita di pensare, non per forza felice, solo dai confini netti. Vorrei sapere chi, almeno un giorno della sua vita, non si è alzato dal letto urlando all’universo “ditemi solo che devo fare, come lo devo fare e io lo faccio basta che ve state tutti calmi“.

Per questo ci affezioniamo alla routine e volte ci affoghiamo pure dentro, per amore di verità, per paura del non sapere. Siamo colpevoli anche di questo? No ma va, però ne siamo responsabili. In qualche modo siamo “veramente” costretti a trovare dei punti di appiglio per quando si fa tutto buio. Almeno su questo mi sembra di essere serena nello schierarmi, cioè che tanto vale lasciare che si faccia ogni tanto tutto buio , piuttosto che ostinarci a darci fuoco da soli pur di fare luce. Da quella ostinazione viene la rabbia per il mondo e una miriade di cose psicosomatiche che in un mondo già difficile, potremmo pure risparmiarci e farci un pianto in più. Capisco che anche la gastrite possa tenere compagnia, ma ricordatevi come si addormentano in pace i bambini dopo che si sono disperati (spesso senza motivo ma intensamente) e date al piantino una seconda chance.

Sì vabbè, ma oltre a sto piantino, quando mi pare che si fa tutto quanto buio, io che cosa devo fare? Perché insomma anche queste sono solo parole buttate lì, niente di nuovo.

Già.

Come mi ha detto una ragazza in studio, riportandomi un libro sulle emozioni che le avevo prestato: “Ma qui non c’è niente, non dice se io sono triste come devo fare a non essere triste.”

Già.

Diffida da chi te lo dice come si fa, Socrate l’avrebbe messa così.

Forse, forse eh, ognuno ha il suo sgabuzzino buio brutto con dentro i fantasmi, i ragni, le scatole con i ricordi chiuse a tripla mandata. Forse in ognuno c’è una lampadina, piccola, di quelle che pendono, arrugginite, che fanno pure contatto. Forse per ognuno è fatta di parti che abbiamo da quando siamo molto piccoli, fatta di cose piccole e inutili per qualcun altro. C’è chi si ricorda dell’esistenza delle coccinelle, chi sistema l’armadio o sposta i mobili, chi effettivamente (beati voi) riesce a perdersi in un libro proprio quando serve, chi va a correre, chi si chiude in camera con la musica non importa se l’adolescenza è finita da 50 anni. Ognuno di noi, forse, dovrebbe ricordarsi di almeno due o tre cose che se fare completamente da solo e che lo illuminano come un fiammifero nella bufera ma lo illuminano quel secondo, e si sente. I più in gamba per me sono quelli che suonano uno strumento o dipingono o sanno usare programmi pazzeschi con cui fare cose, come lo sono gli artigiani, tutti. Però credo che poi uno a se stesso si abitua, per cui inutile dire così, le verità degli altri sono abbaglianti più per noi che per gli altri.

Senza accorgermene ho provato a fare come si fa di solito, a essere per forza costruttiva per gli altri, e invece no, fanno quaranta gradi, ho dovuto spegnere il ventilatore perché fa casino e il nervosismo mi è salito di vari gradi. Preferisco farmi un giretto alle poste e litigare con qualcuno, che risultare troppo cinica o troppo confortante. Mi piace essere confortante perché è come faccio con me per non vivere sempre male, però penso sia più saggio riconsegnare la riflessione a chi la vuole e che ognuno controlli la lampadina se per caso si trova nello sgabuzzino e vede tutto buio.

Direi che nessuno si salva del tutto da solo, che nessuno si salva solo attraverso gli altri, che i modi di salvarsi sono tanti, che ci pensiamo così tanto spesso, che spesso non ci ricordiamo nemmeno più da che cazzo stiamo provando a salvarci. Credo dalla solitudine e credo che quella lampadina sia importante.

La mia si è accesa in alcune occasioni diverse, non chissà quante, le potrei contare. L’ultima su un volo di ritorno da un viaggio andato male, per fortuna lato finestrino così l’assolo di piantino non ha trovato imbarazzi. Atterraggio da incubo rumorosissimo, gente che si attacca ai braccioli, una signora che inizia con omiodioooo, qualcuno incazzato, un paio di turisti tedeschi chissà cosa dicono, io mi risveglio dal torpore e dentro penso solo “eccolo er duro scontro co’ la realtà” e mi viene da ridere, e rido da sola. Mi sono riconosciuta qualcosa che non ha bisogno di nessuno, di farmi ridere da sola se proprio serve, di tenermi compagnia se proprio serve. E volte serve. E per un attimo c’è la luce e mi faccio tenerezza, e per un attimo passa tutto, tranne quella lucetta che non passa mai.

Libretto di consolazione per cuori sfasciati

The book of love is long and boring
No one can lift the damn thing
It’s full of charts and facts and figures
And instructions for dancing
But I, I love it when you read to me

The Magnetic Fields, The book of love

L’amore è una cosa personale, così personale che buona parte di quello che vivi, lo vivi da solo. Buona parte di quello che chiamiamo amore, è fatto di possibilità che non si sono mai avverate, di accenni a universi fantastici sfiorati, di rimpianti, di rimorsi, è fatto di rancori, di scatoloni mai riconsegnati. Buona parte dell’amore è fatta di deliri e di odio.

Eppure non ne possiamo fare a meno e se ne facciamo a meno, non è impresa facile e comunque devo dire che io non lo credo possibile e nemmeno auspicabile. Il perché adesso ve lo provo a spiegare, è una questione a cui tengo, sia perché mi rendo conto di quanto sia difficile resistere al cinismo di sostituire questa casella dell’oroscopo con qualsiasi altra cosa che ci somigli ma che non lo è, sia per avvisare i miei futuri ex su quanto non sia io a essere complicata, ma la materia.

Più di tutto lo faccio per quelle persone che pensano io sia saggia (pazzi), verso i quali sono tanto dispiaciuta, per tutte le volte che hanno un problema d’amore e l’unica cosa che riesco a dire è niente, non riesco mai a dire niente. Mi dispiace, è che su una cosa su cui tutti sembrano avere tutto da dire, mi sembra sia una forma di rispetto portare silenzio. Però ci posso provare.

Partiamo dalla fine:

LA FINE DI UNA STORIA: ZERO TRUCCHI E ZERO CONSIGLI PER SOPRAVVIVERE, A CHI TOCCA NUN S’NGRUGNA.

Esatto miei cari, se cercavate il self test rapido per scoprire se l’ex era Ted Bundy e quindi potete assolverlo al tribunale delle passioni, v’attaccate. Qui non si delega nessuna responsabilità, qui si soffre da eroi.

Lasciarsi è come il gioco della bottiglia al contrario, capita a tutti tranne eventi eccezionali della statistica e se la punta indica te e l’altro, vi tocca e vi toccherebbe anche se scappaste. Prossima festa, prossimo giro, a voi due, tra sei mesi, a quei due che sembravano così perfetti, quando meno te lo aspetti, a quegli altri che stavano insieme da vent’anni.

Lasciarsi è uno di quei momenti in cui si ferma il tempo. Ognuno di noi ne ha alcuni, spesso hanno a che vedere con la paura, con le cose brutte, con le cose che fanno male, ecco, quei momenti lì, lasciarsi è uno di quelli che tutti abbiamo in comune. Qualcuno si ricorda che stava facendo, come era vestito, si ricorda l’ora, cosa aveva mangiato, un po’ come i terremoti. Qualcuno riesce a incassare la notizia e passa tutta la giornata come se nulla, per poi ritrovarsi in posizione fetale sotto la doccia invocando mamma, qualcuno chiama la mamma, l’amico, l’amica, il fratello, qualcuno l’ambulanza, qualcuno spacca casa, qualcuno si siede, si fuma una sigaretta poi spacca casa, qualcuno si siede e non riesce a fare niente tranne che sedersi e, a metà, respirare. Quello che vorrei dire è che comunque succeda, sarà un brutto momento, vi consiglio di avere a portata di mano un campari soda, quello piccolino, in generale per queste cose e altre, non per favorire il bere sconsiderato, è solo perché ci sono momenti in cui prima di fare qualsiasi cosa abbiamo bisogno di pensare. Mi siedo cinque minuti per pensare a cosa devo pensare, serve a scandire meglio il tempo, mentre diamo il tempo al fatto di sedersi di fronte a noi e dirci “Eccoci qui, è successo e adesso è tutta salita, babe.”

Mi piacerebbe segnalare una serie di cose che il vecchio saggio vorrebbe tu facessi e un’altra serie di cose che invece facciamo:

Non cercare mai per nessun motivo non chiedere niente non dire niente

Butta via cancella non stalkerare non guardare niente

Fatti una bella doccia, un bel vestito e via verso una cena con amici e brindare al domani

Non darti la colpa non ruminare non piangere non correre con le forbici

Non pensarci

Richiamare subito come fosse il centodiciotto, attaccarsi come fosse fastweb, non mollare, risponderà, in mancanza di risposta chiedere in maiuscolo sia al destinatario che a tutti gli dei PERCHÈ A ME COSA HO FATTOOO, in mancanza ma come in presenza di risposta, inviare telegrammi, piccioni, fax, libretti illustrativi, esplicativi, con le frecce, in formato pdf e presentazione powerpoint delle proprie ragioni indipendentemente dal possederne o meno

Attaccarsi ai ricordi come alla bombola di ossigeno fino a consumarsi i polpastrelli, chiedere aspettativa dal proprio lavoro per dedicarsi part time più serale, a stalking livello pro di qualsiasi cosa possa fornirci traccia dell’inspiegabile cookies mai letti compresi

Inchiodarsi su qualsiasi superficie immobile come farebbe un orso polare sull’ultima lastra di ghiaccio, io non scendo da qui per nessun motivo, se volete portarmi dei viveri sono qui, ma non ho intenzione di lavarmi mangiare vestirmi mai più per protesta, non esiste nessun domani dal momento che ho perso la mia unica vera ragione di vita e voi siete degli stronzi a non capire

Sono fatto della stessa materia di cui sono fatti gli errori, non riesco a pensare a nient’altro, devo tornare a casa a pensare sul divano a quanto sto male, devo piangere, voglio stare da solo, mi sento solo, lasciatemi da solo, perché mi sento solo, non mi toccateee

Penserai solo a questo. Solo e soltanto a questo. Al fatto che è finita, fi-ni-ta, saludos amigos, ci siamo visti, ci manderemo forse gli auguri a Natale, tra un paio d’anni, forse. Forse ci incontriamo una volta in spiaggia, tu con un ragazzino in braccio o forse io, magari alle poste, quelle mattine in cui uno esce trascurato, magari a una cena di amici che non sapevamo comuni tra trent’anni, tu senza capelli o magari io, forse non ci incontriamo mai più, fatto sta che ci siamo persi.

Una delle cose che vorrei fare, è fare un gruppo di auto aiuto tra cuori sfasciati, in cui ognuno condivide piccoli successi quotidiani e si battono le mani, per cose tipo bravaaaa Mariaaa che ha fatto la docciaaa, bravooo Carlo che mangiato un pasto caldooo, così, a piccoli gesti di autonomia, a piccole cose dopo cose in cui riesci a fare anche senza, perché chi si è appena lasciato parla un linguaggio tutto suo, che gli altri è vero non possono capire, che è vero risulta due palle pure a chi ti vuole bene, che però ha bisogno di stare lì per un po’, ricordandoci sempre che l’amore finisce, ma tende a tornare, e questo sarà un altro capitolo, intanto, come diceva uno psicoanalista giapponese, rispondendo “sudare” a chi gli chiedeva cosa fare durante un attacco di panico, io direi che se per caso sei a questo punto, una cosa giusta la puoi fare, buon pianto e a presto.

Olimpia

L’ipocondria è l’unica malattia che non ho

Ciao Olimpia,

prima di ogni cosa vorrei ringraziarti di cuore per la tua pazienza nel leggere tutte le lunghe righe che seguono, e che provano a parlare di me. Ora provo a presentarmi: ho ventisei anni, sono magra e un po’ bassina (chissene frega, dirai). Il fatto è che con tutto il peso che sento spingermi da sopra, proprio sulle spalle, in questo ultimo ma lungo periodo, mi sembra di esserlo ancora di più. Talmente tanto peso su di loro che da tempo, quando me ne accorgo, sono tese, alte quasi fino al mento (giuro però che il collo ce l’ho, eh) e rigide come a dover sopportare proprio un grande masso, e il mal di schiena annesso.
Beh periodo, dicevo, particolare. Non saprei definirlo con un altro aggettivo per non risultare la “solita” con mentalità negativa e catastrofica. Ho usato le virgolette perché anche questo non è il termine più adatto a me o, perlomeno, non lo era: mi ha sempre contraddistinta una giusta misura di solarità, stupore, spensieratezza e di quella superficialità che intende Calvino. Quasi come ad essere rimasta una bambina. Che meraviglia però i bambini.

Arrivo al punto. Poco meno di un annetto fa dopo una bella, e buona, cena con le mie più grandi amiche (evento ricorrente, ma sempre piacevole) torno a casa e mi preparo per dormire e rivedere il giorno seguente i sorrisi (e le cacche) di quei piccoli esserini di cui mi sono innamorata durante il tirocinio in un nido d’infanzia. Mi sono sdraiata e, più rilassata che mai, completamente dal nulla (così ancora mi sembra sia stato), il panico. Brividi, sudorazione, palpitazioni, tachicardia, respiro corto, vertigini, spasmi alle gambe quando provavo invano a rilassarmi, paura di non-so-che, paura di morire. Paradossalmente, cercando di svuotare la testa per tranquillizzarmi non riuscivo a fare a meno di chiedermi cosa caspita mi stesse succedendo. Riesco ad addormentarmi quasi per la tanta fatica di tutta l’esperienza precedente. Il giorno dopo una sorta di malessere generale unito alla sensazione di non sentirmi più la me di sempre mi pervadeva. Era davvero stato un attacco di ansia, di panico? E io che pensavo di averne già avuti in passato prima della miriade di esami sostenuti. Eppure non erano nulla in confronto, merda!

Benissimo. Da quel giorno di inizio maggio sono diventata cardiologa, fisioterapista, angiologa, infermiera, farmacista. Dermatologa lo sono già, sai, avendo dermatite atopica e alopecia da quando sono nata ormai sono esperta di cortisone; perché si prescrive quello per ogni cosa, no?
A parte gli scherzi (credo), la verità è che la mia attenzione da quel momento va a qualsiasi, davvero qualsiasi, minimo sintomo o male del corpo. Ma soprattutto al cuore: ascolto i battiti con le dita ormai come un tic per capire se sono troppo accelerati o no (che poi chi lo sa quanti sono, boh), lo sento battere anche quando non ci penso e, puntualmente, mi agito e lui inizia a correre, sembra mi prenda in giro. Insomma, ho sempre pensato fosse interessante come organo, specialmente come tatuaggio da poter farmi, ma ora penso (e spesso mi dicono) di stare esagerando. Lo penso, sì, ma è come se non riuscissi ad evitare queste azioni, queste attenzioni. Con loro si è aggiunto un ulteriore, nuovo, pensiero che mi tormenta: la paura di morire. 

Subito dopo l’accaduto, spaventata, scrivo alla psicologa da cui, a seguito di un percorso di tre anni, non andavo più da un anno. Mi mancava, in effetti. Mi mancava l’aria. Per farla brevissima, lei dice che si tratta di una sorta di metafora: la fine – quasi – di un percorso accademico di cinque anni, l’inizio di una relazione amorosa stabile e con qualche iniziale accenno di futuro, il graduale distacco da un rapporto morboso e disfunzionale con i miei genitori, insomma la presa in mano della mia vita e il diventare concretamente “grande” rappresenterebbero tutte morti, e rinascite; così come il fatto di considerarmi ora “ipocondriaca” (nei mesi successivi avevo prenotato tutte le visite mediche possibili e immaginabili; tutte con nessuna problematica finale, se non una “tachicardia emotiva”) è per lei una semplice – se così si può definire – modalità di puntare l’attenzione e preoccuparmi di me stessa dopo una vita in cui ho dovuto preoccuparmi e “prendere sulle spalle” altri, mettendo quindi in secondo piano (e spesse volte pure tralasciando) quelli che dovevano essere i miei pensieri-problemi adolescenziali.

Dicevo, la paura di morire. Mia, la mia morte, in particolare. Un argomento che mai fino ad allora avevo preso in considerazione, o quantomeno non in questo modo. C’è una cosa a cui ancora non riesco a dare un minimo significato però: durante il giorno, indaffarata nelle più svariate attività, seppur con qualche palpitazione quando volontariamente mi addentro in pensieri negativissimi, mi sento quasi la me di sempre. La sera, la notte, sono il vero problema: come se al calare del sole diventassi un’altra persona (per ora, però, non mi trasformo ancora in licantropo. Per ora). Ho paura a dormire da sola, come se da sola non mi sentissi al sicuro, tranquilla; nella mia testa, durante la notte, mi deve per forza succedere qualcosa di brutto. Ogni volta che penso alla morte mi riaffiora l’immagine di mia nonna che due anni fa è stata seppellita; per quanto razionalmente mi renda conto che il tema resta comunque IL mistero della vita umana, pensare di dover essere messa dentro una bara mi manda nel panico. E mi chiedo: ma le altre persone non ci pensano? Ma soprattutto, perché non ci ho mai pensato in questo modo prima? Oppure perché prima non mi creava tutta sta roba?
Adesso prima di ogni cosa da fare, che magari più e più volte ho già fatto, cerco i rischi che possono esserci o se non ci sono, li creo; ogni brutta notizia che sento al telegiornale la immagino su di me. Per addormentarmi cerco di fare cose che mi piacciono per svuotare la mente nei pensieri più critici, ma è proprio facendole che paradossalmente sembra quasi che me le stia cercando, che stia iniziando a pensarci. La sera è come se mi mettessi il timer per iniziare a pensare, pensare, pensare. E agitarmi. È come se fossi talmente tanto abituata a questi pensieri da cercarli, che se poi non ci sono mi sento quasi strana allora ci penso ed eccoli lì. Solo che, cavolo, mi sembra una trappola. Mi sento in trappola. Comunque, dopo un po’, riesco ad addormentarmi.

Arrivo al termine, giuro. Come sono arrivata a te e al tuo sito, forse ti chiederai. Ecco vedi, quando durante il giorno mi sento relativamente bene e tranquilla, mi sento anche in grado di affrontare quelle bruttissime notizie che si trovano facendo ricerche su internet (che poi cosa risolvano sono la prima a non saperlo). Solo che stamattina alla ricerca “pensiero costante di morire” non ho trovato cose pessime e pessimiste, ma il tuo blog. Che ho letto così veloce da rivedermi in molte, molte cose. Quello che più mi ha colpita è stata la corrispondenza epistolare. Devi sapere che mio fratello ama scrivere e pochissimi giorni fa mi aveva consigliato di iniziare (o comunque provarci), perché secondo lui aiuta a fare chiarezza nella mente e nell’anima, e talvolta riesce a “curarti”. Insomma, mi ha detto con altre parole quello che tu hai scritto e che io ho letto. Allora mi sono detta: perché no? Ho provato. Non ti so ancora dire se mi ha aiutata scrivere riguardo un minimo ma enorme frammento di me, ma ho provato. E penso continuerò su un diario, che a me piacciono tanto carta e penna.

Un abbraccio, da isolata

Carissima tartarughina (dico per quel fatto della sensazione del collo a scomparsa e per la casetta che ti porti sulle spalle), grazie per la tua lettera, che bella! Mica facile ridere e far ridere quando si passa un periodo un po’ particolare, che da professionista studiata a Oxford quale sono, mi piace sempre chiamare periodo demmerda.

Ti ringrazio anche per avermi riportato una versione sincera di una mia collega, non sempre questo accade, ma a me fa sempre piacere sapere che anche tra sconosciuti, si cerca di creare un’interpretazione comune, sulla quale mi trovo d’accordo per le informazioni che ho. Ovviamente sapere che succede non ha mai fermato nessuno dal provare dolore, salvo gli esorcismi, in cui nominando il male, il male cambia casa. Ma il male di vivere vale più del più perfido dei diavoli.

Io parto sempre dallo stesso punto, qualunque cosa succeda. Per ricordarmi che il liceo classico è stata una benedizione e per naturale conforto che trovo nel pensare alle parole. Stavolta devo dire che ci sono rimasta di stucco, nel senso che ho letteralmente detto, alzandomi dal tavolo, seee vabbè ma non è possibile, quando sono andata a spulciare l’etimo di ipocondria. Te la riporto: Dal lat. tardo hypochondria (neutro pl.), dal gr. (tà) hypokhóndria ‘ipocondrio’, regione nella quale si presumeva avesse sede la malinconia.

Cioè capito, minchia! Che ok lo sappiamo che è pissicosomatico etc, ma sapere che sei abitata dalla malinconia è molto interessante rispetto ad essere abitata da un male incurabile. (Siamo serie, tanto i mali incurabili sono i veri target, te lo dico da dermatitica 100% quale sono, che se solo penso a una cosa difficile, mi ritrovo a grattarmi pure l’anima a metà pensiero).

Se hai trovato qualcosa che avevo scritto, immagino sia qualcosa in cui dicevo che la paura di morire spesso insorge (mi piace più pensare che si riproponga, come fanno i peperoni) quando siamo chiamati a vivere e sentiamo che ci manca qualcosa (o qualcuno) per farlo.

Quello che ti posso dire è che ogni volta che abbiamo un cazzo amaro in giro per l’esistenza, evitare di pensarci non aiuta, meglio pensarci in maniera sistematica finché la noia pesa più della paura. Nel senso, sarebbe pensabile per te in questo momento, ritagliarti mezz’ora la mattina prima di cominciare la giornata, per dedicarti alla minuziosa ricerca di sintomi su internet? E mezz’ora anche prima di andare a dormire? Non è una soluzione facile, in effetti nemmeno una soluzione, però è un metodo decente di azione, provare a dare uno spazio deciso da noi a una cosa che di spazio se ne prende troppo. Oppure anche ti invito a fare un check up giornaliero completo, scritto se preferisci, sempre alla stessa ora, partendo dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi (non importa se trovi lo smalto dell’estate scorsa, quello è segno di sanità mentale).

Però ecco, io più che di soluzioni parlerei della classica importanza che bisogna dare ai sintomi. Hai avuto un attacco di panico? Benissimo tartarughina, si vede che certe cose sono arrivate a dama e non possono più aspettare. Benedetto no, ma maledetto il male che cresce senza che noi possiamo vederlo e NO, non ti parlo dei vari tumori a cui ogni forum che si rispetti, a un certo punto ti conduce, più di quella malinconia che devi avere sottopelle e che poi si traduce in manifestazioni somatiche.

La mia prognosi è che passerà tutta la paura di morire, se ti concedi di non dover essere sempre quella che sostiene tutto, sempre solare, sempre sul pelo delle cose con leggerezza e mai con superficialità. Più ti concederai di esprimere certe emozioni in modo emotivo e non somatico, meno spazio avrà la paura di morire. Facile? Non necessariamente, però forse te lo devi. Mi fai pensare un po’ anche al personaggio di Mafalda, una simpatica bambina di un fumetto argentino, che passava un sacco di tempo a guardare i telegiornali rattristandosi e in molte vignette abbraccia un mappamondo. Ecco, non sono di quelle che oddiooo la pandemia ci ha kambiati!!1 però penso che un certo peso, pure fosse quello dell’abitudine, lo ha pure sempre messo sulla bilancia e sulle spalle.

Se ti viene meglio, scrivile, se non riesci a intercettarle, non fa niente, prova quando ti viene a bussare un momento ipocondriaco, a chiederti cosa è successo in quella giornata, quale dolore hai evitato di vedere o quale cacca non ti va di pulire. Hai ragione, i bambini so’ speciali, senza sovrastrutture, i bambini siamo noi prima che i doveri della vita venissero a chiederci il conto. I bambini sono famosi anche per un’altra cosa: per farsi venire la febbre quando in verità vorrebbero soltanto un abbraccio. Mia cara, hai proprio l’età legale per cominciarti a preoccupare della vita con serietà, io la metterei pure così.

Tempo fa ho letto un libretto delizioso. si chiama Morirò me l’ha detto l’internet, scritto da un ragazzo che per anni è stato ipocondriaco ed è, come te, traboccante di ironia. Contiene cose come: Senti questo che storie si fa per un dolore alla tibia, potrebbe pensare un ipocondriaco a colloquio con un suo simile. Cosa dovrei dire io, allora, con questi strappi ai polpacci che gridano leucemia?

Altro non me lo ricordo bene, questa l’avevo segnata, insieme a un’altra che diceva tipo chiunque è stato in grado di sopravvivere alla propria infanzia ha abbastanza informazioni sulla vita per il resto dei suoi giorni. Insomma, te lo consiglio molto più dei forum dove dopo ottocento commenti trovi sempre il simpaticone che dice “Chieda al suo medico” e tu dentro pensi, vabbè ma lei che cazzo fa scusi, gestisce un biscottificio?

Ecco, la tua domanda è sul corpo, ma la risposta no.

Ti saluto con molto affetto e con un altro piccolo consiglio di lettura che è proprio il primissimo libro che ho mai letto, Tre uomini in barca, english e delizioso, ancora rido quando lo ripenso.

Ti  mando un grande grande abbraccio per la tua condivisione e un augurio di pronta guarigione per la tua anima irrequieta e insieme anche un altro pezzetto di libro del cuore (no, non quello per misurare i battiti, quello per sorridere), con la consapevolezza che, non per l’ipocondria, ma proprio per la salute del corpo e dell’anima, non esiste protezione più grande di quella che ti può dare il tuo humour. Cara tartarughina, i malanni immaginati passano, il carattere per fortuna no.

“Ricordo di essere andato un giorno alla biblioteca del Museo Britannico per documentarmi sulla cura di non so quale lieve malanno soffrivo… febbre del fieno, se ben ricordo. Presi un trattato di medicina e lessi tutto ciò che mi riguardava. Poi, senza riflettere, voltai le pagine e cominciai a scorrere distrattamente la descrizione di altre malattie. Non so più quale fosse il primo malanno sul quale mi soffermai… qualcosa di terribile, di micidiale, però… ma prima di essere arrivato a metà dell’elenco dei “sintomi premonitori”, ero fermamente convinto di essere affetto da quella malattia.

Rimasi a lungo paralizzato dal terrore; poi, con l’indifferenza della disperazione, cominciai a voltare le pagine del libro. Giunsi alla voce del tifo, lessi i sintomi, constatai che avevo il tifo e che dovevo averlo da mesi e mesi, senza saperlo… e mi domandai che altro potevo avere addosso; passai al ballo di San Vito e scoprii, come prevedevo, di avere anche quello. Cominciai a interessarmi del mio caso e, deciso ad andare fino in fondo, ricominciai daccapo, in ordine alfabetico. Lessi la descrizione della malaria e seppi che l’avevo in pieno; lo stadio acuto sarebbe cominciato da lì a una quindicina di giorni. Quanto al morbo di Bright, constatai con sollievo che l’avevo soltanto in forma attenuata e che, se fosse stato soltanto per quello, avrei potuto vivere ancora per qualche anno. Il colera l’avevo, con gravi complicazioni; quanto poi alla difterite, sembrava addirittura che l’avessi dalla nascita. Esaminai coscienziosamente tutte le voci dal principio alla fine dell’alfabeto e potei concludere che la sola malattia dalla quale non ero affetto era “il ginocchio della lavandaia”.

Mi sentii quasi offeso, sulle prime; in certo qual modo, mi pareva un affronto. Perché non avevo il ginocchio della lavandaia? Perché quella menomazione? Ben presto, però, prevalse in me uno stato d’animo meno avido. Riflettei che avevo tutti gli altri malanni noti alla scienza medica e, reprimendo l’egoismo, decisi di rassegnarmi a non avere il ginocchio della lavandaia. La gotta, nella sua forma peggiore, mi aveva colto, a quanto pareva, senza che io me ne accorgessi; quanto alla zimosi, era evidente che ne soffrivo dall’infanzia. L’elenco delle malattie terminava a “zimosi”, perciò conclusi che non avevo nient’altro.”

Cose che mi sembra di aver imparato ma forse no

Solenne cosa dentro l’anima è sentirsi maturare, eppure spesso provo imbarazzo verso tutte le cose che ho detto e fatto in passato, però il passato lo rimpiango spesso.

Spesso evito di fare molte cose per evitare di provare imbarazzo dopo averle fatte, spesso mi rimprovero per le cose che non faccio.

Spesso sento con buona parte di me stessa che più mi avvicino alle cose, meno le riesco a vedere.

A volte mi chiedo come vedrò la vita quando sarà arrivata alla fine. Se tutte quelle cose che mi sembra di non sapere, mi sembreranno più chiare, i rimpianti meno vividi, i rimorsi meno neri. Quello che mi appare chiaro adesso è che ogni anno in più, è un anno in meno, quindi nel frattempo metto tutto sul tavolo, che si sa, dopo una certa età le cose tocca scriversele, che siano condivisibili, che lo siano meno, basta che nessuno viva per cercare una verità che sia una soltanto.

Ho imparato che dormire con i calzini nelle stagioni fredde è meglio che dormire senza

che praticamente nessuno si lava i denti tre volte al giorno

che se non chiudi i pacchi di biscotti con le mollette poi fanno schifo

che i panni è meglio stenderli subito se no sanno di cane umido

che tutto quello che non riusciamo a fare oggi poi domani ci presenta il conto

ma va bene non farlo lo stesso

che tutti vogliamo essere sempre amati da tutti, ma nessuno è disposto ad amare tutti per come sono

che tante volte pensiamo così intensamente a qualcuno più perché non ci va di pensare intensamente a tutto il resto

che non possiamo dirci veramente amanti o amici se non conosciamo il colore preferito dell’altra persona

che non tutti gli amici vanno bene per fare tutte le cose e che questo non vuol dire che non siano buoni amici

che i genitori fanno un mestiere difficile ma pure quello dei figli non scherza

ho imparato che la mattina ho bisogno di un’ora intera di silenzio e di caffè altrimenti mi rode il culo per tutta la giornata

che spesso mi rode il culo per tutta la giornata anche senza motivo

che gli stati d’animo sono come il meteo, affidabili per poche ore

ho imparato a fare lo spezzatino, che poi basta avere solo pazienza perché si fa da solo

che avere pazienza è tra le cose più difficili del mondo e non una virtù innata

che tutti sono vanitosi, alcuni in un modo, altri in un altro, ma tutti

che è legittimo farsi domande sulla morte, propria e degli altri

è legittimo essere arrabbiati ma aggressivi non necessariamente

che l’umiltà è pure più difficile della pazienza

meno di una storia d’amore

che a volte essere gentili apre molte porte, altre le apre essere severi

che il cambiamento è più difficile sia della pazienza che dell’umiltà

meno di una storia d’amore

che è inutile sentirsi motivati prima di fare qualcosa che non ci va di fare, perché l’unico modo di fare una cosa che non ci va di fare, è farla sapendo che non ci va e stupirci che diventi piacevole dopo un po’

che mi piace fare la psicologa anche se non ho ancora capito perché lo faccio

ma alcuni giorni mi chiedo se lo so fare

altri se lo voglio fare

ma è il mio modo di amare tutto

mettendo in dubbio

tutto

che non posso vivere senza tenerezza

che rammendare fa bene, ai vestiti e alle relazioni

però pure dimenticare è lecito

che ognuno di noi ha e deve avere cose di cui si vergogna dentro e cose che non vuole dire

che la verità è sopravvalutata

troppo sopravvalutata

che odiare è più facile che fare compromessi

e che molti matrimoni si fondano e si mantengono sul principio di rabbia e di duello

che il viola sta bene con il rosso e il verde con l’arancione

che rispondere alle notifiche subito è l’unico modo per rispondere

che non sempre bisogna rispondere

che tutti ogni tanto abbiamo pianto sotto la doccia

che a volte siamo le persone che attraversano la strada e altre quelle di fretta in macchina, in entrambi i casi siamo giustificati a sentirci infastiditi

che quando le cose capitano a noi pensiamo che gli altri non possano capire

che a volte non proviamo a spiegarci nemmeno perché ci piace sentire che nessuno ci capisce perché ci fa sentire speciali

e profondi

che i soldi sono molto importanti sia per la felicità che per la libertà, ma solo se hai buon gusto e buon senso

che i soldi non sono molto importanti per la generosità

che chi mette davanti un difetto che sicuramente non ha, ti sta dicendo qual è il suo peggior difetto

ho imparato una poesia di Emily Dickinson nel giorno del mio compleanno

e sono stata felice

non ho imparato a fare a mente le percentuali ma ho imparato che non fa niente perché ormai so fare lo spezzatino

che è normale essere invidiosi perché senza invidia non capiremmo cosa ci manca

che le persone che non puliscono mai la macchina mi stanno più simpatiche di quelle che lo fanno

ho imparato che parlo troppo, quasi sempre, tranne alcune volte in cui vorrei parlare talmente tanto che poi sto zitta

ho imparato a stare zitta

ma mi servono più prove per esserne sicura

che alcune persone hanno bisogno di lamentarsi ma non di essere incoraggiate

che asciugarsi i capelli con una maglietta di cotone li fa diventare meno frizz

che mi piace stendere i panni in modo ordinato

ovvio visto che pure i piatti sporchi li sistemo tutti allineati

che ho delle rimanenze di pensiero magico notevoli

anche se le linee ormai le calpesto

ma comunque un po’ mi pesa farlo

che il cambiamento non è mai snaturarsi ma levigare quello che c’è

che la vita è una ma siccome sembrano tante, questa frase non va ripetuta troppo spesso perché mette l’ansia

che per motivare qualcuno a volte serve sfidarlo anche se fa male a entrambi

che in alcuni giorni sarai una persona detestabile, come lo sono gli altri

quindi il mondo non è un posto pieno di stronzi

ma un posto pieno di gente che a volte si incontra nel giorno giusto, a volte manco per niente

che non è il Natale il problema, ma la famiglia

che non è il Capodanno, ma gli amici

che sotto la rabbia spesso ci sono tante lacrime

che esistono dei tipi di speck addirittura più buoni del prosciutto

ma forse no

non ho imparato, mai imparato, la punteggiatura

e come tutte le cose che mi chiedono il conto

provo a pagarle con le cambiali

andando a capo come mi pare

per ignoranza e non per poesia

Ho imparato che mi piace tanto pensare di avere imparato le cose e poi dimenticarmele perché le cose a me mi tengono compagnia, lo hanno sempre fatto e quindi forse verso la fine mi farò solo domande di matematica alle quali non so rispondere e le farò solo per sentirmi viva

Che sia un anno bello, per favore non esagerate con i propositi

che a volte basta uno spezzatino, essere curiosi e lavarsi i denti due volte al giorno.

Come smettere di procrastinare

Buongiorno a tutti gli amici in ascolto, di seguito l’esperta vi fornirà alcuni preziosi consigli su come smettere di rimandare ogni cosa che vi mettete in testa di fare, a domani o al giorno dopo ancora. Quindi procedo a mettermi in cattedra, a lustrare gli occhialini che per un motivo misterioso si riempiono di ditate anche quando nessuno li tocca e, con i poteri conferitimi dallo studio mattissimo e disperato, dall’Ordine degli Psicologi del Lazio e dalla mia prozia MariaGiovanna che sono sicura faccia il tifo per me, vi farò sentire molto in colpa per le vostre pessime abitudini e per come vivete male la vostra vita, giornata dopo giornata, tentativo dopo tentativo, fallito.

Voi, a differenza mia che alle 6 di mattina di ogni giorno che qualcuno manda in terra mi alzo per tirare muretti a secco in giardino con la sola mano sinistra, non sarete mai persone di successo, non sarete mai felici e, cosa più importante tra tutte, non riuscirete mai a cambiare il mondo, sfigati.

Ecco, grosso modo la sensazione che provo quando incappo in qualche scrittura sulla costruzione di una routine vincente come scacco matto al dolore, è quella che ho provato a spiegarvi, impegnandomi per sembrare antipatica.

Perché quando leggo delle persone che dispensano dottrine su come vivere, io mi sento che non sto vivendo, sto solo trascinando me stessa verso gli impegni che mi fanno pagare le bollette. Mi sento come se ogni tentativo fatto sia uno sparo a salve nel cuore di una foresta disabitata. E penso anche che chi si permette questo piglio, senza alcun riferimento alle difficoltà, sta commettendo un piccolo grande crimine contro l’umanità, il crimine di essere disonesto.

Se vuoi avere successo e felicità devi per forza comportarti come un militante nelle fila dei doveri, alzarti non presto, prestissimo, procedere dunque con un’oretta di esercizio che manco i balilla, oppure meditazione profonda oppure yoga flow oppure sei un coglione. Espletata la colazione leggera a base di acqua e limone tiepida e fette di segatura e semi lino e nocciole del Kazakistan, gli esercizi di mantenimento gravitazionale della massa, indossato il tuo abito migliore, si procederà dunque al controllo della posta. E qui mi immagino di essere praticamente Churchill che la mattina apre la posta criptata per decidere le sorti della guerra. Solennemente apro gmail e imposto le mani a lavorare come scriba professionista e compito e rispondo alle potenze internazionali chiudendo ogni lettera con “cordialità” scritto bello grosso.

E, secondo loro, tutta questa immane fatica è solo quella delle prime due o tre ore del giorno, superate quelle con il massimo dei voti, dovremmo lanciarci nelle strade del mondo augurando buongiorno ai passanti, infilandoci con la 24h di pelle nel vagone della metro in perfetto orario senza nemmeno una goccia di sudore. Quando lavoriamo stiamo cambiando il mondo, noi stessi, il riscaldamento globale. Quando mangiamo siamo meglio di Luciano Onder in Medicina 33, solo frutta e verdura di stagione, solo un massimo due bicchierini di vino e solo a cena, solo prodotti non lavorati, niente schifezze, niente zuccheri, 5 litri d’acqua al giorno, tisane depuranti, radici di zenzero, omega3, niente fritti a meno che non sia un’occasione speciale e, anche in quel caso, meglio fritto ad aria, meglio fritto leggero, anzi, meglio che sembra fritto ma in realtà è al forno.

Per non parlare del sonno, daje a dire che dobbiamo dormire 8 ore, spegnere i telefoni, spegnere i computer, la luce, i pensieri. Eppure non conosco una persona che sia una, che ogni notte dorme 8 ore e che riesca a spegnere se stesso quando vuole. Per non parlare, e non ne parlerò perché lo considero un capitolo a parte, della disonestà del far intendere che se non credi abbastanza in te stesso, nelle tue capacità, nei tuoi sogni, allora non sei appunto solo uno sfigato, sei proprio un povero coglione. Non so di preciso voi, ma io più che andare a dormire, collasso sul divano ricoperta da apparati di bassa tecnologia, posacenere e forcine. Verso le due mi alzo di soprassalto con gli occhiali e la luna di traverso, mi infilo se va bene metà del pigiama e provo a trascorrere un secondo tempo che spesso diventa: curiosità sulle ginocchia dei pinguini, osservazione del soffitto, introspezione dolorosa sul passato e sul futuro, inevitabile arrivo delle prime ore dell’alba, inevitabile ansia correlata e profondissimo sonno quando ormai è tardi.

La verità, gentili amici in ascolto, sempre che parlare di verità sia qualcosa concesso agli esseri umani, è che ogni giorno è una scommessa con la vita. Ogni giorno è tutto uno scommettiamo a chi ce la fa di più, se la nostra volontà di fare batte quale del non fare. Ogni giorno è una probabile scadenza, ogni giorno un essere umano si sveglia al suono della decima sveglia rimandata e sa solo una cosa: che non ha nessuna voglia di correre. Sa che le gocciole non ti rimettono al mondo, che un caffè non basta, che sognare può fare male.

E io non sono qui a ricordarci che la vita uh com’è difficile la vita, no. Sono qui a provare a dirci che la routine, quella danza scomposta che si intraprende con i giorni, è una buona norma, ma le regole non possono essere imposte.

Se provassimo ad ammetterci che il primo pensiero non è “dio che bello eccoci di nuovo qui“, ma “dio come farò oggi“, credo ci sentiremmo tutti meglio. Se provassimo a essere inclusivi in questo senso invece che cazzeggiare solo con cosa non si può stigmatizzare perché pare brutto e provassimo a non colpevolizzare la volontà, ritenendola handicappata quando non rispetta i tempi dei capi della NATO, forse permetteremmo a più persone di avvicinarsi a qualche tipo di cambiamento stimolando sul serio la volontà a farlo, non facendo passare ogni tipo di azione impegnativa come una forma di piacere bensì come un possibile dovere che porta qualche soddisfazione.

Non si insiste abbastanza spesso sulle difficoltà del prendersi cura di se stessi attraverso le piccole abitudini, non si insiste abbastanza spesso nel raccontare quanto sia facile indulgere e quanto sia piacevole dirsi “lo faccio domani”, anche quando domani è sinonimo di “mai più”.

Non riuscire a trasformare ogni sogno in realtà non è invece sinonimo di non saper vivere, è il segnale che ci stiamo provando. La vita non è quella cosa che ti alzi e te la mangi, è un fenomeno delicato, fatto di tanti momenti silenziosi, fatto di immaginazione e ricordo, di invidie, di paure e di momenti di rabbia. La vita è quella cosa che ti svegli, sbuffi, eppure ti alzi lo stesso e provi a trascinarti attraverso le cose che devi fare, qualche volta bene, altre malissimo, altre non ti alzi affatto e continui a immaginare.

Non riuscire a superare sfide che probabilmente non ci appartengono nemmeno non fa di noi dei depressi, dei pigri, delle persone incapaci di concentrarci, fa di noi delle persone punto.

Prendete la routine che secondo voi dovete seguire, scrivetevi tutta la giornata nel dettaglio inondandovi di compiti impossibili, poi cancellate tutto e lasciate solo una cosa piccoletta. Oggi che è mercoledì forse stasera farò lo spezzatino, oggi che è mercoledì forse finirò di scrivere quello che sto scrivendo, oggi che è mercoledì, è mercoledì, fa freddo, sono passati altri mesi da quando ho detto che avrei pulito i vetri, eppure sono qui, forse non mi sento così felice, così soddisfatta e vincente, così invincibile e così arrivata, però mi sento viva, però mi sento, punto.

L’essenziale non è invisibile al cuore

Tutto inizia 10 anni fa, quando finisco nelle grinfie di un narcisista manipolatore. Riesce ad intortare me e purtroppo anche mia figlia. Quest’ultima, figlia del mio primo matrimonio, avendo una grande mancanza del padre (non si è mai occupato molto della figlia), si è affezionata moltissimo (grazie anche alle sue doti di manipolatore) a quello che sarebbe diventato il mio secondo marito. La proposta di matrimonio, avviene ovviamente, dopo il decesso dei miei genitori, peraltro molto benestanti.

Fino a quel momento, il mio “fidanzamento” andava molto bene. Complimenti, attenzioni di tutti i tipi, mazzi di fiori, cene al ristorante, etc. Preciso che sono non vedente. Dopo il matrimonio, inizia l’incubo. Mortificazioni, insulti, cercava di farmi credere di essere pazza. È stato capace di qualunque schifezza. Approfittando della mia disabilità, impedendomi di cucinare (ci tengo a precisare che sono una brava cuoca, ai tempi d’oro riconosciuta anche da lui). Solo col passare del tempo, mi accorgo che le gambe non mi reggono, perdo la percezione di ciò che mi capita attorno e dimagrisco 24 kg. Lei dottoressa può sicuramente immaginare il calvario che ho passato, visto che mia figlia continuava a difenderlo, dicendomi che non dovevo fare la stronza, rovinando un matrimonio e che avevo bisogno di una persona che pensasse a me.

Col passare del tempo ed anche con l’aiuto di alcune persone amiche, mi rivolgo ad uno psichiatra, per una visita approfondita e per concludere, una Relazione Medico-Legale. Salta fuori sia la mia sanità mentale di base, ma saltano anche fuori le scatole di psicofarmaci, nascoste in casa, che il caro marito, approfittando della mia disabilità, mi sbriciolava negli alimenti. Unitamente alla collaborazione con il mio Avvocato, riesco a separarmi ed ora attendo la sentenza di divorzio. Mi è costato molto riuscire ad allontanarmi da questo essere, anche perché ne ero molto innamorata e non riuscivo a capire come potesse avermi portato dalle stelle alle stalle.

La cosa più brutta, è che è comunque riuscito ad allontanarmi da mia figlia, che non mi vuole più vedere e non mi permette di vedere il mio nipotino. Lui, in compenso è sparito, grazie al cielo e spero di non rivederlo mai più. (Detta da una non vedente fa un po’ ridere…ma va bene così)

La ringrazio per avermi dato questa opportunità,

C.

Carissima C., tanto per cominciare ci tengo a dirle che la sua lettera mi ha commosso, inutile nasconderle che parte di questa commozione mi è venuta pensando a una mamma e nonna che non può vedere figlia e nipotino, dall’altra pensando a quella stessa donna che vive anni da incubo in cui cerca di svegliarsi ritrovandosi sempre però a occhi chiusi. Mi scusi se nomino così candidamente il fatto che lei non veda, mi sarebbe più faticoso evitare di includere un fattore così importante nell’idea che sto provando a disegnarmi. Quello che anche ci tengo a dirle è che sono felice al pensiero di sapere che c’è qualcuno, da qualche parte, che ha trovato un modo per allontanarsi da qualcosa che un tempo faceva così bene e poi così ma così tanto male. Non tutti ci riescono, sono sicura che lo sappia.

Ora veniamo al resto, di solito non rispondo o non rispondo particolarmente volentieri (dal vivo come qui) alle affermazioni sull’aver incontrato una persona con disturbo narcisistico, uomo o donna che sia. Questo non perché non fidi di ciò che mi viene detto, anzi mi fido senza ombra di dubbio del fatto che ogni sentimento è un sentimento reale e che esistano tante verità quante persone su questo mondo, quindi le chiedo di accogliere questa mia titubanza nel modo più gentile possibile, perché se mi mettessi a dare addosso a questo individuo che pare essersi comportato in maniera così scorretta, non penso che le porterei sollievo, o meglio in un certo qual modo sì. quando ci feriscono abbiamo bisogno di sapere che l’errore non stato nostro e che siamo stati vittime di qualcuno pieno di cattive intenzioni. Eppure la rabbia, per quanto possa proteggere, è un balsamo senza effetto prolungato.

Quello che mi piacerebbe lei potesse continuare a capire è come mai le è capitato di imbattersi in una persona del genere e che cosa succedeva durante quei momenti in cui vilmente le sbriciolava farmaci nel cibo a sua insaputa, in cui screditava ogni suo gesto e in cui innalzava barriere tra lei e sua figlia. Quale era il testo del vostro contendere e inoltre, se fossi ovviamente la sua terapeuta, vorrei sapere cosa è successo al suo primo matrimonio, in che modo è finito e se questa è la prima volta che si “affida” così tanto a qualcuno o se c’è una parte di lei che, durante questo tempo orribile, ha preferito non sentire certi campanelli di allarme che erano lì nascosti tra mazzi di fiori e promesse per il futuro. Le chiederei tutte queste cose, pur sapendo che potrebbero farla sentire in difficolta, ma gliele chiederei lo stesso. In ultimo le chiederei anche che cosa intendesse con non fare la stronza. Forse non sopportava di vedere andare via un altro “papà”, forse come succede purtroppo molto spesso in questi casi, i figli se la prendono con i genitori per non essere stati abbastanza “amabili” da far rimanere l’altro. Lei se lo chiede mai se è meritevole di un amore tutto intero, in cui nessuno accudisce gli aspetti dolorosi dell’altro ma entrambi si prendono cura uno dell’altra.

Lo so che molto probabilmente non era certo questa la riflessione che si aspettava, mi dispiace tanto, è che anche se questo è un mezzo piccolino e di nessun ma dico nessun valore clinico, cerco sempre di comportarmi come faccio il resto del tempo, sollevando domande, cercando di costruire insieme una soluzione che non solo possa rendere più morbido il passato, ma possa aiutare a evitare che il passato si riversi tutto nel presente, mangiandosi il presente, mangiandosi il futuro.

Io vorrei non solo che lei cercasse un aiuto per costruire il modo di riparlare con sua figlia, perché se gli amori possono passare, i figli accidenti no, ma vorrei anche che con un enorme sforzo, provasse a riconsegnare tutto il male al mittente, delegando la questione ad uno scioglimento legale e pensando che anche se quel futuro che avevate costruito insieme, fatto di molte promesse e pochi fatti, non esiste più, ne esistono alcuni che aspettano soltanto lei per poter essere costruiti.

La mia titubanza sul disturbo narcisistico come capo d’accusa è dovuta a due motivi, da un lato penso che in moltissime occasioni non si tratti di un vero disturbo di personalità, ma di un carattere di merda, accompagnato a una scarsissima maturità relazionale e molta paura, dall’altro, anche quando si tratta di un disturbo conclamato, purtroppo la considerazione non cambia. Noi spesso immaginiamo che dall’altra parte ci sia una persona che nulla sente e nulla soffre, assetata di potere sigli altri e sempre in controllo, eppure è proprio in quei casi clinici che si riscontra la miseria più nera, fatta di persone continuamente in lotta con la loro essenza, anzi privi di un essenza, incapaci di amare perché incapaci di costruire un’immagine delle altre persone dotata di coerenza, continuamente perseguitati da un perfezione che ricercano altrove perché nel loro tormento non c’è spazio per il dubbio, non c’è spazio per gli altri, ma dagli altri sono ossessionati. Narciso non si uccide perché specchiandosi finalmente scopre la sua bellezza, Narciso si uccide perché specchiandosi finalmente si vede, e impazzisce per l’orrore.

Mentre lei, lei mia cara, nonostante tutto e tutti, finché riuscirà a sentire il modo in cui è fatta, come vero specchio delle sue emozioni, allora vedrà molto ma molto più lontano di qualunque stronzo le capiterà di incontrare. Consideri gli aspetti di questo per fortuna quasi ex marito come la vera disabilità, perché sono sicura lei non abbia avuto una scelta, mentre chi sceglie di fare male può provare a fare meglio e un’anima disabile e presuntuosa, il mondo non offre nessun rimedio.

La abbraccio,

Olimpia

Il diritto di essere tristi

Tutte le felicità si somigliano, mentre la tristezza di ognuno ha un colore diverso. La mia somiglia al colore dei pomeriggi di Agosto in città, è un gomitolo di fili di ferro giallo acceso e asfalto, ed è tutta la vita che provo a non farci il nido dentro. Eppure senza quelle spine io non saprei che fare, e non saprei chi sono.

Sembra che nessuno perda anche solo un secondo per alzarsi in piedi e mettersi a difendere diritti. Il diritto di amare chi vogliamo, di metterci addosso quello che vogliamo, di pesare come vogliamo, mangiare, parlare, scopare, lavorare, respirare, viaggiare, tutto come vogliamo. Anche il diritto di potersi sentire depressi, la lotta allo stigma dei poveri pazzi che vanno dagli psicologi. Possiamo essere quasi tutto, ma non possiamo essere tristi. Se sei triste devi per forza alzarti e andare a fare una passeggiata, devi per forza fare la conta delle cose preziose che ti sono capitate e accendere un cero alla Madonna, devi pensare a chi sta peggio e devi pensare a te quando sei stato peggio. Puoi addirittura appellarti alla ricerca di una diagnosi che ti metta in pace con gli altri, da sventolare quando le cose iniziano a mettersi male o anche solo faticose. Eppure, se sei triste, te la fai passare e basta.

Il pregiudizio per cui una persona triste o una persona ingrata è prima di tutto incrollabile per la persona stessa, poi il resto del mondo. Stiamo tutti lì con questa idea per cui bisogna, a tutti i costi, arrivare alla felicità. Come se la tristezza fosse la Salerno Reggio Calabria e la felicità il mare. Con questo non voglio dire cagate tipo godiamoci il viaggio, la vita fa schifo quindi tanto vale puntare sulla buona musica di sottofondo o anche solo la vita fa schifo, accontentiamoci delle piccole cose, tipo quella folatina di vento tra i capelli che arriva tra un tir e quello dopo. Non volevo dire questo ma perché non è che sappia qualche segreto sulla vita, di merda o meravigliosa che sia.

Quello che so, o meglio quello che sento tra i rumori di friggitrice lontana fatta di asfalto e la luce delle 15 che esplode tra le fessure della persiana del salotto, è che dobbiamo imparare a starci in modo più costruttivo, nel nido di fili di ferro. Quello che penso, o sempre quello che sento, è che lottare con tutta questa ferocia contro qualcosa di ineliminabile, è quasi come buttarla, la vita, nella ricerca che la vita inizi.

Ogni tristezza è un pensiero che prende le scale per andare in cantina, rovista tra gli scatoloni, si fa luce con poco, teme il mondo fuori e si accanisce con il mondo dentro. Una vita a sentirci dire che dobbiamo chiudere via le emozioni scomode e non recuperarle mai, nemmeno una volta l’anno come le palle dell’albero. Sì, d’accordo, in qualche modo siamo arrivati a concederci che possono essere giorni in cui non siamo supereroi, in cui vorremmo restare a letto e in cui ci coglie la malinconia, ma l’idea è che uno debba stare o lì a farsela passare, o fare una bella passeggiata in montagna che ti distrae. NO. NO E POI NO. Io non mi voglio sempre distrarre dalle cose che sento, ogni tanto vorrei anche cercare di farmene qualcosa, come sedermi qui con la ventola che porta la temperatura del polso a 100 gradi e la vicina che ascolta Sapore di mare (l’ha mollata pure l’ultimo fidanzato) e la mia dolcissima tristezza al pizzico di zanzara e cocomero.

Non è un tentativo di glorificare il dolore in quanto tale, solo un tentativo di cercare di darlo un po’ per scontato e quindi di costruire lì sopra, su quello che c’è. Se c’è sabbia, sulla sabbia, se c’è pietra, sulla pietra, se non c’è un cazzo, sul nulla, ma come se fosse comunque un castello. Le persone muoiono, si abbandonano, si tradiscono, si umiliano, si fanno del male. Ogni traguardo è anche un limite e se cerchiamo di pulire ogni millimetro del caos, tempo qualche secondo, al caos si ritorna.

Se la smettessimo di chiedere a noi e a tutti di battersi indefessi per questa spasmodica ricerca, spesso fatta di cose che possiamo possedere, nomi, cose, case, chissà che cosa inizieremmo a cercare. Forse smetteremmo di soffrire per l’inutile e cominceremmo a farlo per l’essenziale.

Cosa fa di un essere umano, un essere umano felice? La mancanza di tristezza? Secondo me no, secondo me le cose che fanno di un essere umano, un essere umano felice, sono le attese, è il venticello che senti quando sei in traghetto anche se va tutto male, sono i momenti misti che ci fanno felici, quelli in cui c’è spazio anche per la parte che invece di riflettere la luce, la assorbe.

Nella vita forse la dobbiamo smettere di cercare un segreto, o peggio IL segreto, quell’unico piccolo momento che sancisce un prima e un dopo, quell’unico grande incontro, quell’unico grande tramonto, quell’unico grande rimpianto.

Pensare al dolore non equivale a produrre dolore, pensare al dolore è mettersi allo specchio e dire questo, questo, questo e quest’altro non mi piacciono, eppure qualcosa lo voglio salvare. Siamo sempre più quello che rimane che quello che mettiamo in mostra.

Pretendere che la vita sia fatta di perfezioni ci fa pretendere che tutto sia fatto di perfezione, che le persone vengano decapitate, categorizzate e chiuse, al primo errore; che le cose stesse che vogliamo fare siano perfette al primo tentativo, perché se causano fallimento causano tristezza e quindi non vanno bene; che, in ultimo, pure il mondo non vada bene visto che di cose poco perfette, signora mia, ne abbiamo a tonnellate.

Voi che cosa fate quando siete tristi, cercate di correre più veloce dei pensieri e di farli smettere o vi sedete a prendere il the con le tristezze per cercare di sentire che cosa hanno da raccontare?

Ci piace così tanto salvare tutto, perdonare tutto, capire tutto, sentirci liberi di dire tutto e ancora non abbiamo imparato a stimare la luce anche per il buio che la rende possibile.

L’era dell’ansia

Ciao Olimpia, mi chiamo M. e ho 23 anni, seguo il tuo blog e mi “intrippo” un sacco sulle cose che posti, e ho deciso che volevo farti una domanda perché ho visto che sei molto diretta con le risposte e questa cosa mi piace un sacco. Secondo te, si guarisce mai dall’ansia? O è un qualcosa di cronico che ci portiamo a vita? Il mio ‘psicodottore’ dove vado da qualche mese, mi dice che l’ansia è una parte di me di cui forse ho bisogno, senza sapere perché. Eppure io la sento come una presenza esterna che governa silenziosamente la mia vita (che poi silenziosamente mica tanto..) e che quando riesco a fregare in qualche modo e a fuggire mi prende con il doppio della forza e mi rimette al posto mio, un po’ come una molla in tensione. Leggo su internet che l’ansia è una risorsa, è una cosa bella, un’energia che nasce da dentro, eppure per me è solo un incubo che si ripete giorno per giorno. Ma questi che dicono ciò, l’hanno mai provata? Come fa a essere un qualcosa di positivo se a me sembra di morire pure solo se mi sposto di 10km da casa? Perché non si può dire che l’ansia è una merda e che nessuno la vorrebbe? Io non capisco o forse non voglio capire, ma mi sento come se mi avessero fatto una maledizione e mi fossi svegliato un giorno con questa palla al piede che non posso più togliere , e quindi cammino con sta cosa attaccata e dove vado sbatte ovunque distruggendo qualsiasi cosa io abbia intorno. Sono anni che non mi posso permettere di godermi un’emozione pura, una cosa libera da qualche pensiero che subito è lì, dietro di me che mi osserva e mi ricorda che non posso essere libero, mi fa sentire così in trappola che certi giorni non mi sopporto da solo e vorrei scappare da me stesso, finisce che ovviamente non ci riesco e quindi mi trovo in questo stato di lotta tra me stesso continuo, fin quando non mi viene un bell’attacco di panico di quelli che ti stroncano la giornata e finisce tutto con un questo senso di impotenza fin quando non vado a dormire, per poi ricominciare il giorno appresso con la stessa manfrina. È tutto un fuggire dalle situazioni di pericolo, evitare così sfacciatamente tutte le occasioni che mi creano anche il minimo timore senza vedere che così mi privo quasi in totale della vita, una cosa del tipo non faccio niente perché ho paura di tutto ma poi mi lamento del fatto che non faccio niente perché ho paura di tutto.
Vorrei tanto svegliarmi e lasciarla a casa la mattina, nel comodino, lì ferma e dirle sinceramente “ansia, m’hai rotto il cazzo”. Le persone che mi stanno intorno fanno viaggi, si divertono, fanno sport estremi vanno di qua, di là, al mare in montagna fanno gesta eroiche e io per andare nel comune di fianco al mio devo prepararmi mentalmente per 3 giorni, devo calcolare gli eventuali pericoli e poi mi devo sentire pure un coglione perché mi sento di essere ridicolo.
“L’ansia è una cosa da accettare, accettandola passa via da sola”.
Perché mi dovrei accettare così come sono, se non mi vado bene per niente? Io non voglio essere così, vorrei essere più libero, mi sento in trappola con me stesso.
Perdonami per questa mail, e anche per il fatto che forse avrei dovuto darti del lei e mi sono permesso questa confidenza, ma grazie grazie di aver ascoltato, passa una splendida giornata 🙂

Ciao carissimo, ma si figuri, quale del lei che la prima volta che mi hanno dato del lei era alla discussione della tesi e quando hanno detto “Sentiamo lei cosa ne pensa“, dopo 3 minuti pieni ho detto “Ma lei chi?“, quindi va benissimo così.

Ma veniamo a lei, lei l’ansia. Ah l’ansia, uh l’ansia, ma quale accettarla che poi passa, io direi piuttosto cercare di significarla. Cioè proprio cercare di capire che cazzo vuole questa corda al collo da te e dalla tua vita, anzi forse addirittura più che significarla, cercare di capire che cosa vuole per sentirsi sazia e andare a dormire per lasciarti dormire.

Sì, sono spesso diretta e un po’ indisponente come un gavettone alle spalle con la camicia appena stirata, per questo ti dico che secondo me è proprio il termine che non rende giustizia all’anima. Come dici tu, ed è uno dei tanti motivi che mi hanno fatto volere subito bene alla tua lettera, è l’era dell’ansia. Pare come se non ci fossero più sinonimi utili o giri di parole o colori per raccontare come uno si sente, tranne che dire c’ho l’ansia. Come stai? C’ho l’ansia. Ti piaccio? Madò che ansia. Vieni al cinema mercoledì? Il mercoledì mi fa venì l’ansia. Come si chiama tua sorella, come ti vedi tra dieci anni, che ore sono? Ansia, ansia, ansia.

Ecco, quando mi sembra tutto molto complicato per essere capito, come i semplici, provo a tenermi semplice. Se invece di ansiaatuttospiano, ti chiedessi ma di che cos’é che hai paura, secondo me sapresti farmi una lista molto lunga e soddisfacente (che qualcuno leggendola direbbe “madò che ansia), anzi, provaci anche subito se vuoi e vedi quanto ci metti a finirla. Perché io è così che la vedo, l’ansia, come quella palla di paure che se non affrontiamo mai, ci lasciano stare mai. La mia personale ansia è fatta di tutte quelle cose che non ho fatto durante la giornata, di tutte quelle che devo fare domani, di tutto quello che dovevo diventare, di tutto quello che posso diventare, di tutto quello che è tardi per diventare, della ricevuta della lavanderia che sta sul tavolo da Maggio e che da Maggio vedo e dimentico ogni mattina, dal giudizio di me stessa su me stessa, da quello di tutti su me stessa, dal giudizio in generale, dagli sconti sugli yogurt Muller che scadono domani, dal ventilatore che devo prendere in garage, da quella volta che feci la corsa campestre e non la vinsi perché a volte voglio così tanto vincere che mi siedo e dico che non mi interessa manco partecipare. E la tua, che contiene, di che paure è fatta, a parte quella di non farcela mai a fare cose eroiche, andare in posti esotici, andare anche solo in vacanza a Ladispoli, andare senza per forza dover tornare?

A quale promessa inconsapevole stai cercando di essere fedele? Che succede se poi ce la fai, chi tradisci se poi ci riesci, qualcuno che prima di te non ce l’ha fatta oppure è solo il fatto che una volta che ce l’hai fatta poi ti tocca pure mantenerla? Qual è il pensiero più asfissiante che ti viene a prendere ogni volta che provi a prendere sonno? Insomma, l’ansia o Concetta che tu la voglia chiamare, a qualcosa serve, non possiamo solo odiarla, ma per questo non dobbiamo giusto accettarla e sperare di allenare un’autoironia alla Woody Allen così almeno con st’ansia un po’ ce rimorchiamo. Stare sempre più vicino che lontano, crediamoci o no, ti protegge da qualcos’altro, magari anche solo dai fallimenti, magari dall’allontanarti di casa e da coloro che ci stanno dentro, magari dal vedere una cosa che più che paura, fa proprio male.

Famme esse un po’ professionale così poi gli psicodoc mi sgridano di meno, “Il candidato si interroghi sull’utilità del sintomo e si chieda a cosa starebbe pensando se per magia l’ansia, nottetempo, finisse sul Alfa Centauri invece che dritta in faccia“.

Non sei condannato, non lo sarai mai almeno finché ti fai tutte queste domande, sei giovane (sì lo so, lo so, è odioso quando te lo dicono però sei giovane per me, o meglio per il momento in cui io ho cominciato a fare i conti con me stessa, quindi l’altro ieri) e quindi io non me li immagino altri tuoi 5 anni a farti domande senza risponderti. Davvero, ne vedo forse al massimo altri due, magari proprio quelli in cui decidi cosa fare da più grande, dove vivere e con chi, sull’amore manco mi esprimo ma insomma dai, vuoi che non ci sia anche lui nelle paure. Io ti vedo piuttosto a fare a cazzotti con tante cose, come molte persone non fanno in realtà non nei loro vent’anni, ma proprio mai, e uscire da quel ring sapendo che però non hai fatto a botte col nemico invisibile, hai fatto a botte col nome e cognome delle cose animali città e persone.

Caro M., come negli esorcismi, sti diavoli non li levi se non li nomini col loro vero nome.

Fammi provare, prima di salutarti con un abbraccione, a fare di nuovo quella che fa la professionale: con l’ansia e le distanze è meglio ragionare costruendo mappe specifiche, entro cui ti puoi muovere e oltre alle quali poi ti tocca incollarti l’attacco di panico di fine giornata. Prendi una carta della zona, vedi fino a dove arrivi, metti una crocetta lì dove comincia il mal di mare e la prossima volta fai un passo in più. Uno solo, l’altro domani, il terzo per adesso non importa, tutti i demoni si scardinano una piccola vite per volta, in fondo siamo solo esseri umani, non abbiamo le ali, nessuno in particolare ci salva il culo da lassù, però ce lo possiamo proteggere forgiando con la pazienza un anellino dell’armatura dopo l’altro, uno per volta.

Visto che in effetti gli abbracci a distanza fanno un po’ schifo, ti invito a leggere una poesia che rileggo ogni tanto quando ho paura, si chiama Paura, di Carver, uno fico che sicuramente c’aveva l’ansia ma non ci ha costruito dentro, ci ha costruito sopra.

Olimpia