Questa cazzo di nostalgia degli anni ’90
Buona parte della mia infanzia l’ho passata seduta dietro in macchina, a guardare fuori dal finestrino, immaginando futuri possibili. Gli anni ’90 erano appena iniziati e la musica suonava diversa, suonava sempre.
Il mondo era pieno di lycra e di colori senza vergogna, le donne portavano le magliette corte, invece la vita che mi vedevo davanti sembrava lunghissima. Ancora oggi, quando guido alzo il volume e lascio i sogni appoggiati sui chilometri.
Chi ti dice che sono quelli intorno ai trent’anni che si vogliono sistemare ti sta dicendo una cazzata. I migliori sogni romantici sono quelli che si fanno i bambini. Loro hanno una capacità seriale di costruire progetti per un domani che non fa acqua da nessuna parte. Non ne troverai uno che sia uno a raccontarti di amori al condizionale, storie che vivono solo a mezzanotte e scopa-amici della domenica. I bambini ci danno giù duro con l’indicativo, io sono e io sarò, io ho e io avrò. I bambini credono davvero che un giorno faranno gli astronauti.
Io invece volevo avere un megafono per dire le cose a volume altissimo e parlare di notte in una radio pirata. A 7 anni mi ero già innamorata 3 volte di cui una all’asilo. Più degli altri quel bambino che a carnevale la maschera non se la metteva ma veniva con delle felpette improbabili dell’Ape Maya. Siccome non sapevo mai scegliere indossavo tutto insieme il tutù, i capelli da fata turchina e il basco francese sopra la parrucca. Nella mia testa saremmo stati perfetti e io gli avrei regalato il cappello.
Da qualche parte nel mondo esiste ancora una piccola scrivania bianca con uno sportello di lato e una farfalla disegnata. Lì dietro c’era scritto “I lov Robberto” con il pennarello rosso. Indelebile non credo, ma certe cose non le cancelli. Certi sogni non li cancelli.
Noi dovevamo essere quelli che avrebbero avuto tutto perché gli anni ’80 ce lo avevano promesso. Le nostre mamme avevano le spalle larghe di spalline di spugna e non si vergognavano dei capelli cotonati né degli gli ombretti blu. Niente sembrava impedirci di saltare su qualche navicella spaziale ed esplorare l’infinito. Secondo me quel desiderio non si è mai veramente spento. Non ci importa se alla fine poi non abbiamo avuto nulla e siamo condannati a vivere un’adolescenza che tira fino alla terza età. A noi ce l’avevano promesso e se fa male vedere che non sarà mai così fa comunque più male escluderlo totalmente.
Ci piacciono le cose che non esistono più perché potrebbero sempre esistere ancora, ci facciamo il bagno nei ricordi degli oggetti chiusi nelle scatole delle soffitte. Tutti quei giochi che profumavano di fragola e plastica, i gelati dell’Algida fuori produzione, i cartoni animati estinti. Ci vestiamo come allora, bambini grandi con le Superga senza calzini, Alice che canta Per Elisa ancora una volta e siamo condannati a vivere il presente un giorno per volta. Il numero di volte in cui nominiamo il vintage supera quello in cui un accendino fa la sua fiamma.
Siamo una generazione confusa, senza soldi da parte e con meno OGM addosso. Forse siamo stati gli ultimi a giocare con i fili d’erba nei parchetti e a dover tornare a casa per forza in orario perché i walkie talkie non avevano sto gran raggio di azione.
Ma noi moriremo giovani, noi non finiremo mai veramente di crescere fino in fondo prima di cominciare ad invecchiare. Abbiamo ancora troppi chilometri da percorrere e troppi sogni da sparpagliare. Noi siamo rimasti lì ed è per questo che la maledetta nostalgia ritorna e ritorna. Perché non si tratta di come avremmo dovuto essere ma di come ancora possiamo diventare e non c’è desiderio più vivo e più forte di uno che non si è mai esaudito.
Siamo così attaccati a certe immagini che siamo riusciti a riportare a galla persino quelle cazzo di zeppe tutte pare che ricordano le scarpe ortopediche di Frankenstein. Che ci serva da balorda misura del non voler mollare il passato nemmeno di un centimetro.
Forse ci passerà davvero tutto davanti come i miei paesaggi dal finestrino. Forse non riusciremo ad afferrare niente ma forse non è importante e forse non ci farà paura. Noi saremo quelli che le hanno pensate tutte e ne hanno cominciata mezza, noi siamo già mentre aspettiamo di diventare ancora. E allora prendiamocela sta maledetta nostalgia, facciamoci il bagno con gli occhi chiusi nuotando in mezzo a tutti i nostri forse.
La parte secchiona e occhialuta di me vi voleva anche dire che le parole so sempre importanti, ma so importanti pure le etimologie e a me, il greco che ho studiato a scuola mi è diventato negli anni un amico del cuore. Adesso non mi storcete i nasetti dicendo che non serve a una beata minchia. Serve, serve. Nostalgia vuole dire dolore del ritornare, vuole dire che ogni volta che alla radio parte Bello e impossibile di Gianna Nannini, lì fuori c’è sempre qualcuno che la canta e ripensa a ieri, dove qualcosa è dolce e qualcosa fa male e io:
Non conosco la ragione che mi spiegherà
perché non voglio più salvarmi dalla libertà
è una forza che mi chiama sotto la città
e se il cuore batte forte non si fermerà.
Non è vero che le favole non esistono o che ce le hanno raccontate male, è vero che noi ci ricordiamo sempre e solo l’ultima frase del felici e contenti per sempre. Invece ci dimentichiamo di tutto l’intreccio e i casini incommensurabili che vivono i protagonisti. Noi possiamo fare ancora davvero tutto perché la fine non è l’intreccio, quello che ci avevano promesso ci sta aspettando, nello stesso identico modo in cui lo immaginavamo tanti anni fa.
Forse non siamo mai cresciuti, ma ripensando agli anni ’90 posso dire che almeno siamo diventati tutti più alti e allora qualche centimetro di scarto per avvicinarci al cielo, lì dove ci immaginavamo di stare un giorno come eroi delle stelle, non si può dire che non l’abbiamo coperto.
Olimpia Parboni Arquati