Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

La posta di Olimpia – Il diritto di essere tristi

Cara Olimpia,

ho di nuovo voglia di scriverti, dopo aver riletto per la prima volta la lettera che ti avevo scritto qualche mese fa. Della tua risposta, e di tutte le cose che potrei ricordarmi, mi ricordo soprattutto un dettaglio: il tuo augurio di soffiare le candeline sul mio quarto di secolo volando, sopra le paure e sopra la tristezza. Ho atteso un po’ quel giorno portando le tue parole nel cuore, considerandole un buon auspicio, una forza, un aiuto sincero. Ora sono qui, sono passati pochi giorni dal mio compleanno e quelle candeline le ho virtualmente soffiate nella mia camera, da sola, piangendo allo specchio. Ha l’aria di essere una nuova lettera strappalacrime, e invece voglio dirti una cosa: io sono felice così. Sono felice della mia infelicità. Ho passato forse tutti i compleanni della mia vita facendo finta di essere felice, e invece questo no, questo volevo essere infelice con sfida, con sincerità, forse anche con noia, con disprezzo, di me stessa, di chi mi ha lasciato sola, con le mie autentiche sane e liberatorie lacrime. Non ho spiccato il volo in questi mesi, come tu mi avevi augurato, e come mi ero augurata, forse con poca sincerità, io stessa. Ma oggi mi va di coltivare il mio diritto di essere infelice. Mi va di dire al mondo: io soffro. Perché in fondo non c’è nulla di più umano della sofferenza, che tutti continuiamo a nascondere e scansare infilandola di soppiatto col piede sotto il tappeto mentre qualcuno entra, come si fa con quella pallottola di polvere che ti è sfuggita alla vista l’altro giorno mentre spazzavi. Vogliamo essere lindi, puliti. Vogliamo brillare. E invece io penso che non ci sia brillantezza che non passi dalle fatiche, dalle delusioni e dallo sfasciarsi, da qualche parte, addosso a qualche muro che tutti incontrano prima o poi. Cara Olimpia, io voglio essere sporca. Voglio scovare la polvere negli angoli e dietro le librerie, e voglio lasciarla crescere; voglio creare un polverone, ecco. Per così dire.

Adesso ho avuto voglia di rileggere la tua risposta invece. Non l’ho fatto prima perché forse stavo rispondendo alla me stessa di qualche mese fa, che nascondeva ancora troppa polvere sotto i tappeti. Mi è venuto ora in mente che nella mia casa di studentessa c’è tanta polvere, sai, c’è davvero tanta polvere. È una buffa coincidenza. Comunque la tua risposta mi ha fatto nuovamente sorridere molto. Hai ragione, dovrei riuscire a dire addio ai campi di cotone, eppure tutto sembra trattenermi quaggiù. Mi auguro di lasciar vivere le tue parole un po’ più forte dentro di me, mi auguro di lasciarmi aiutare. Non so ancora se riuscirò a spiccare il volo o se rimarrò un pulcino bagnato nel nido per sempre. Vorrei che nessuno si dimenticasse del pulcino che non ha imparato a volare.

S.

Carissima ma carissima S. questa volta io non mi sento di aggiungere quasi niente, perché il sentimento più bello che esista è quello che hai quando ti accorgi che sono gli altri ad avere ragione. Per cui in questi casi l’unica vera parola che conta è sempre una sola: Grazie.

E mio piccolo pulcino, ricorda una cosa che diceva un poeta: “A volte serve essere brutti. A cosa serve? A essere veri.”

E ricordane anche un’altra, tra tutti gli uccelli che esistono, ce n’è uno fantastico che però non sa volare perché non gli serve di farlo, e già stupendo abbastanza così com’è. I cigni non volano, i cigni ci mettono un po’ di tempo a capire che sono cigni e non sono soltanto anatroccoli un po’ neri. Continua a camminare che le ali ce le hai già dentro e la fantasia è un posto dove non solo piove, ma ogni tanto ci si vola anche dentro.

Olimpia