Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

L’ipocondria è l’unica malattia che non ho

Ciao Olimpia,

prima di ogni cosa vorrei ringraziarti di cuore per la tua pazienza nel leggere tutte le lunghe righe che seguono, e che provano a parlare di me. Ora provo a presentarmi: ho ventisei anni, sono magra e un po’ bassina (chissene frega, dirai). Il fatto è che con tutto il peso che sento spingermi da sopra, proprio sulle spalle, in questo ultimo ma lungo periodo, mi sembra di esserlo ancora di più. Talmente tanto peso su di loro che da tempo, quando me ne accorgo, sono tese, alte quasi fino al mento (giuro però che il collo ce l’ho, eh) e rigide come a dover sopportare proprio un grande masso, e il mal di schiena annesso.
Beh periodo, dicevo, particolare. Non saprei definirlo con un altro aggettivo per non risultare la “solita” con mentalità negativa e catastrofica. Ho usato le virgolette perché anche questo non è il termine più adatto a me o, perlomeno, non lo era: mi ha sempre contraddistinta una giusta misura di solarità, stupore, spensieratezza e di quella superficialità che intende Calvino. Quasi come ad essere rimasta una bambina. Che meraviglia però i bambini.

Arrivo al punto. Poco meno di un annetto fa dopo una bella, e buona, cena con le mie più grandi amiche (evento ricorrente, ma sempre piacevole) torno a casa e mi preparo per dormire e rivedere il giorno seguente i sorrisi (e le cacche) di quei piccoli esserini di cui mi sono innamorata durante il tirocinio in un nido d’infanzia. Mi sono sdraiata e, più rilassata che mai, completamente dal nulla (così ancora mi sembra sia stato), il panico. Brividi, sudorazione, palpitazioni, tachicardia, respiro corto, vertigini, spasmi alle gambe quando provavo invano a rilassarmi, paura di non-so-che, paura di morire. Paradossalmente, cercando di svuotare la testa per tranquillizzarmi non riuscivo a fare a meno di chiedermi cosa caspita mi stesse succedendo. Riesco ad addormentarmi quasi per la tanta fatica di tutta l’esperienza precedente. Il giorno dopo una sorta di malessere generale unito alla sensazione di non sentirmi più la me di sempre mi pervadeva. Era davvero stato un attacco di ansia, di panico? E io che pensavo di averne già avuti in passato prima della miriade di esami sostenuti. Eppure non erano nulla in confronto, merda!

Benissimo. Da quel giorno di inizio maggio sono diventata cardiologa, fisioterapista, angiologa, infermiera, farmacista. Dermatologa lo sono già, sai, avendo dermatite atopica e alopecia da quando sono nata ormai sono esperta di cortisone; perché si prescrive quello per ogni cosa, no?
A parte gli scherzi (credo), la verità è che la mia attenzione da quel momento va a qualsiasi, davvero qualsiasi, minimo sintomo o male del corpo. Ma soprattutto al cuore: ascolto i battiti con le dita ormai come un tic per capire se sono troppo accelerati o no (che poi chi lo sa quanti sono, boh), lo sento battere anche quando non ci penso e, puntualmente, mi agito e lui inizia a correre, sembra mi prenda in giro. Insomma, ho sempre pensato fosse interessante come organo, specialmente come tatuaggio da poter farmi, ma ora penso (e spesso mi dicono) di stare esagerando. Lo penso, sì, ma è come se non riuscissi ad evitare queste azioni, queste attenzioni. Con loro si è aggiunto un ulteriore, nuovo, pensiero che mi tormenta: la paura di morire. 

Subito dopo l’accaduto, spaventata, scrivo alla psicologa da cui, a seguito di un percorso di tre anni, non andavo più da un anno. Mi mancava, in effetti. Mi mancava l’aria. Per farla brevissima, lei dice che si tratta di una sorta di metafora: la fine – quasi – di un percorso accademico di cinque anni, l’inizio di una relazione amorosa stabile e con qualche iniziale accenno di futuro, il graduale distacco da un rapporto morboso e disfunzionale con i miei genitori, insomma la presa in mano della mia vita e il diventare concretamente “grande” rappresenterebbero tutte morti, e rinascite; così come il fatto di considerarmi ora “ipocondriaca” (nei mesi successivi avevo prenotato tutte le visite mediche possibili e immaginabili; tutte con nessuna problematica finale, se non una “tachicardia emotiva”) è per lei una semplice – se così si può definire – modalità di puntare l’attenzione e preoccuparmi di me stessa dopo una vita in cui ho dovuto preoccuparmi e “prendere sulle spalle” altri, mettendo quindi in secondo piano (e spesse volte pure tralasciando) quelli che dovevano essere i miei pensieri-problemi adolescenziali.

Dicevo, la paura di morire. Mia, la mia morte, in particolare. Un argomento che mai fino ad allora avevo preso in considerazione, o quantomeno non in questo modo. C’è una cosa a cui ancora non riesco a dare un minimo significato però: durante il giorno, indaffarata nelle più svariate attività, seppur con qualche palpitazione quando volontariamente mi addentro in pensieri negativissimi, mi sento quasi la me di sempre. La sera, la notte, sono il vero problema: come se al calare del sole diventassi un’altra persona (per ora, però, non mi trasformo ancora in licantropo. Per ora). Ho paura a dormire da sola, come se da sola non mi sentissi al sicuro, tranquilla; nella mia testa, durante la notte, mi deve per forza succedere qualcosa di brutto. Ogni volta che penso alla morte mi riaffiora l’immagine di mia nonna che due anni fa è stata seppellita; per quanto razionalmente mi renda conto che il tema resta comunque IL mistero della vita umana, pensare di dover essere messa dentro una bara mi manda nel panico. E mi chiedo: ma le altre persone non ci pensano? Ma soprattutto, perché non ci ho mai pensato in questo modo prima? Oppure perché prima non mi creava tutta sta roba?
Adesso prima di ogni cosa da fare, che magari più e più volte ho già fatto, cerco i rischi che possono esserci o se non ci sono, li creo; ogni brutta notizia che sento al telegiornale la immagino su di me. Per addormentarmi cerco di fare cose che mi piacciono per svuotare la mente nei pensieri più critici, ma è proprio facendole che paradossalmente sembra quasi che me le stia cercando, che stia iniziando a pensarci. La sera è come se mi mettessi il timer per iniziare a pensare, pensare, pensare. E agitarmi. È come se fossi talmente tanto abituata a questi pensieri da cercarli, che se poi non ci sono mi sento quasi strana allora ci penso ed eccoli lì. Solo che, cavolo, mi sembra una trappola. Mi sento in trappola. Comunque, dopo un po’, riesco ad addormentarmi.

Arrivo al termine, giuro. Come sono arrivata a te e al tuo sito, forse ti chiederai. Ecco vedi, quando durante il giorno mi sento relativamente bene e tranquilla, mi sento anche in grado di affrontare quelle bruttissime notizie che si trovano facendo ricerche su internet (che poi cosa risolvano sono la prima a non saperlo). Solo che stamattina alla ricerca “pensiero costante di morire” non ho trovato cose pessime e pessimiste, ma il tuo blog. Che ho letto così veloce da rivedermi in molte, molte cose. Quello che più mi ha colpita è stata la corrispondenza epistolare. Devi sapere che mio fratello ama scrivere e pochissimi giorni fa mi aveva consigliato di iniziare (o comunque provarci), perché secondo lui aiuta a fare chiarezza nella mente e nell’anima, e talvolta riesce a “curarti”. Insomma, mi ha detto con altre parole quello che tu hai scritto e che io ho letto. Allora mi sono detta: perché no? Ho provato. Non ti so ancora dire se mi ha aiutata scrivere riguardo un minimo ma enorme frammento di me, ma ho provato. E penso continuerò su un diario, che a me piacciono tanto carta e penna.

Un abbraccio, da isolata

Carissima tartarughina (dico per quel fatto della sensazione del collo a scomparsa e per la casetta che ti porti sulle spalle), grazie per la tua lettera, che bella! Mica facile ridere e far ridere quando si passa un periodo un po’ particolare, che da professionista studiata a Oxford quale sono, mi piace sempre chiamare periodo demmerda.

Ti ringrazio anche per avermi riportato una versione sincera di una mia collega, non sempre questo accade, ma a me fa sempre piacere sapere che anche tra sconosciuti, si cerca di creare un’interpretazione comune, sulla quale mi trovo d’accordo per le informazioni che ho. Ovviamente sapere che succede non ha mai fermato nessuno dal provare dolore, salvo gli esorcismi, in cui nominando il male, il male cambia casa. Ma il male di vivere vale più del più perfido dei diavoli.

Io parto sempre dallo stesso punto, qualunque cosa succeda. Per ricordarmi che il liceo classico è stata una benedizione e per naturale conforto che trovo nel pensare alle parole. Stavolta devo dire che ci sono rimasta di stucco, nel senso che ho letteralmente detto, alzandomi dal tavolo, seee vabbè ma non è possibile, quando sono andata a spulciare l’etimo di ipocondria. Te la riporto: Dal lat. tardo hypochondria (neutro pl.), dal gr. (tà) hypokhóndria ‘ipocondrio’, regione nella quale si presumeva avesse sede la malinconia.

Cioè capito, minchia! Che ok lo sappiamo che è pissicosomatico etc, ma sapere che sei abitata dalla malinconia è molto interessante rispetto ad essere abitata da un male incurabile. (Siamo serie, tanto i mali incurabili sono i veri target, te lo dico da dermatitica 100% quale sono, che se solo penso a una cosa difficile, mi ritrovo a grattarmi pure l’anima a metà pensiero).

Se hai trovato qualcosa che avevo scritto, immagino sia qualcosa in cui dicevo che la paura di morire spesso insorge (mi piace più pensare che si riproponga, come fanno i peperoni) quando siamo chiamati a vivere e sentiamo che ci manca qualcosa (o qualcuno) per farlo.

Quello che ti posso dire è che ogni volta che abbiamo un cazzo amaro in giro per l’esistenza, evitare di pensarci non aiuta, meglio pensarci in maniera sistematica finché la noia pesa più della paura. Nel senso, sarebbe pensabile per te in questo momento, ritagliarti mezz’ora la mattina prima di cominciare la giornata, per dedicarti alla minuziosa ricerca di sintomi su internet? E mezz’ora anche prima di andare a dormire? Non è una soluzione facile, in effetti nemmeno una soluzione, però è un metodo decente di azione, provare a dare uno spazio deciso da noi a una cosa che di spazio se ne prende troppo. Oppure anche ti invito a fare un check up giornaliero completo, scritto se preferisci, sempre alla stessa ora, partendo dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi (non importa se trovi lo smalto dell’estate scorsa, quello è segno di sanità mentale).

Però ecco, io più che di soluzioni parlerei della classica importanza che bisogna dare ai sintomi. Hai avuto un attacco di panico? Benissimo tartarughina, si vede che certe cose sono arrivate a dama e non possono più aspettare. Benedetto no, ma maledetto il male che cresce senza che noi possiamo vederlo e NO, non ti parlo dei vari tumori a cui ogni forum che si rispetti, a un certo punto ti conduce, più di quella malinconia che devi avere sottopelle e che poi si traduce in manifestazioni somatiche.

La mia prognosi è che passerà tutta la paura di morire, se ti concedi di non dover essere sempre quella che sostiene tutto, sempre solare, sempre sul pelo delle cose con leggerezza e mai con superficialità. Più ti concederai di esprimere certe emozioni in modo emotivo e non somatico, meno spazio avrà la paura di morire. Facile? Non necessariamente, però forse te lo devi. Mi fai pensare un po’ anche al personaggio di Mafalda, una simpatica bambina di un fumetto argentino, che passava un sacco di tempo a guardare i telegiornali rattristandosi e in molte vignette abbraccia un mappamondo. Ecco, non sono di quelle che oddiooo la pandemia ci ha kambiati!!1 però penso che un certo peso, pure fosse quello dell’abitudine, lo ha pure sempre messo sulla bilancia e sulle spalle.

Se ti viene meglio, scrivile, se non riesci a intercettarle, non fa niente, prova quando ti viene a bussare un momento ipocondriaco, a chiederti cosa è successo in quella giornata, quale dolore hai evitato di vedere o quale cacca non ti va di pulire. Hai ragione, i bambini so’ speciali, senza sovrastrutture, i bambini siamo noi prima che i doveri della vita venissero a chiederci il conto. I bambini sono famosi anche per un’altra cosa: per farsi venire la febbre quando in verità vorrebbero soltanto un abbraccio. Mia cara, hai proprio l’età legale per cominciarti a preoccupare della vita con serietà, io la metterei pure così.

Tempo fa ho letto un libretto delizioso. si chiama Morirò me l’ha detto l’internet, scritto da un ragazzo che per anni è stato ipocondriaco ed è, come te, traboccante di ironia. Contiene cose come: Senti questo che storie si fa per un dolore alla tibia, potrebbe pensare un ipocondriaco a colloquio con un suo simile. Cosa dovrei dire io, allora, con questi strappi ai polpacci che gridano leucemia?

Altro non me lo ricordo bene, questa l’avevo segnata, insieme a un’altra che diceva tipo chiunque è stato in grado di sopravvivere alla propria infanzia ha abbastanza informazioni sulla vita per il resto dei suoi giorni. Insomma, te lo consiglio molto più dei forum dove dopo ottocento commenti trovi sempre il simpaticone che dice “Chieda al suo medico” e tu dentro pensi, vabbè ma lei che cazzo fa scusi, gestisce un biscottificio?

Ecco, la tua domanda è sul corpo, ma la risposta no.

Ti saluto con molto affetto e con un altro piccolo consiglio di lettura che è proprio il primissimo libro che ho mai letto, Tre uomini in barca, english e delizioso, ancora rido quando lo ripenso.

Ti  mando un grande grande abbraccio per la tua condivisione e un augurio di pronta guarigione per la tua anima irrequieta e insieme anche un altro pezzetto di libro del cuore (no, non quello per misurare i battiti, quello per sorridere), con la consapevolezza che, non per l’ipocondria, ma proprio per la salute del corpo e dell’anima, non esiste protezione più grande di quella che ti può dare il tuo humour. Cara tartarughina, i malanni immaginati passano, il carattere per fortuna no.

“Ricordo di essere andato un giorno alla biblioteca del Museo Britannico per documentarmi sulla cura di non so quale lieve malanno soffrivo… febbre del fieno, se ben ricordo. Presi un trattato di medicina e lessi tutto ciò che mi riguardava. Poi, senza riflettere, voltai le pagine e cominciai a scorrere distrattamente la descrizione di altre malattie. Non so più quale fosse il primo malanno sul quale mi soffermai… qualcosa di terribile, di micidiale, però… ma prima di essere arrivato a metà dell’elenco dei “sintomi premonitori”, ero fermamente convinto di essere affetto da quella malattia.

Rimasi a lungo paralizzato dal terrore; poi, con l’indifferenza della disperazione, cominciai a voltare le pagine del libro. Giunsi alla voce del tifo, lessi i sintomi, constatai che avevo il tifo e che dovevo averlo da mesi e mesi, senza saperlo… e mi domandai che altro potevo avere addosso; passai al ballo di San Vito e scoprii, come prevedevo, di avere anche quello. Cominciai a interessarmi del mio caso e, deciso ad andare fino in fondo, ricominciai daccapo, in ordine alfabetico. Lessi la descrizione della malaria e seppi che l’avevo in pieno; lo stadio acuto sarebbe cominciato da lì a una quindicina di giorni. Quanto al morbo di Bright, constatai con sollievo che l’avevo soltanto in forma attenuata e che, se fosse stato soltanto per quello, avrei potuto vivere ancora per qualche anno. Il colera l’avevo, con gravi complicazioni; quanto poi alla difterite, sembrava addirittura che l’avessi dalla nascita. Esaminai coscienziosamente tutte le voci dal principio alla fine dell’alfabeto e potei concludere che la sola malattia dalla quale non ero affetto era “il ginocchio della lavandaia”.

Mi sentii quasi offeso, sulle prime; in certo qual modo, mi pareva un affronto. Perché non avevo il ginocchio della lavandaia? Perché quella menomazione? Ben presto, però, prevalse in me uno stato d’animo meno avido. Riflettei che avevo tutti gli altri malanni noti alla scienza medica e, reprimendo l’egoismo, decisi di rassegnarmi a non avere il ginocchio della lavandaia. La gotta, nella sua forma peggiore, mi aveva colto, a quanto pareva, senza che io me ne accorgessi; quanto alla zimosi, era evidente che ne soffrivo dall’infanzia. L’elenco delle malattie terminava a “zimosi”, perciò conclusi che non avevo nient’altro.”