Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

Pensare al suicidio non ha mai ucciso nessuno

Questa mattina mi sono svegliata presto ma non mi volevo alzare perché sono triste. Ho allungato il lenzuolo sopra la testa come se fosse un casco integrale e non un pezzo di stoffa, poi ho visto la luce delle sette che entrava dalle persiane abbassate, ho sentito il rumore del mare qui sotto, ho intravisto la coda del cane che prendeva velocità, ho pensato a quanto è buona la prima sigaretta dopo il caffè e con la faccia gonfia di sonno e sgonfia di voglia, me lo sono andato a preparare.

Le vite degli altri sono tutte invidiabili se non le guardi da dentro. Gli altri sembra sempre sappiano cavarsela meglio di te a grinta e volontà, ad ambizioni e progetti di viaggio. Gli altri sembra sempre che possano vivere a due passi dal suolo senza sbucciarsi mai le ginocchia. Invece ci sono giorni, mesi, periodi, ere, in cui la vita non è quella festa piena di colori che si racconta in giro.

Non sarà mio compito scrivere quattro cazzate su quanto sia assurdo suicidarsi, anche se tra le varie cose che mi sarebbe piaciuto fare da grande ci stava pure il negoziatore, o come si chiama, insomma quello dei film che convince i criminali a non fare qualcosa di brutto solo con le parole o che tira giù dal grattacielo qualche povero uomo sfinito. Non lo sarà perché se ci penso bene, a fondo, in certe mattina specialmente, sono io la prima a non capire perché dovremmo sottoporci a questa tortura in cui perdiamo chi amiamo, in cui non otteniamo quasi mai quello che vogliamo, in cui c’è comunque molta più rabbia che amore per le strade. Io penso invece che chi si interroga ogni tanto sulla reale convenienza e il reale valore della vita, mettendo in conto anche di poter fermare la giostra, abbia più rispetto dell’esistenza di chi ci mette in guardia sul fatto che togliersela, l’esistenza, sia pura follia ed egoismo. Il valore della vita non può essere dato in maniera tautologica, deve essere trovato o peggio ancora, costruito.

Uno dei primi libri che ho letto di cui non ricordo il nome, era la storia di una ragazza che veniva uccisa e però la sua anima non moriva e andava al proprio funerale e guardava gli altri dispiacersi per lei. Secondo me è questo che tanti vorremmo quando pensiamo al suicidio, non esserci più ma esserci lo stesso per capire quanto gli altri ci amassero e pensassero bene di noi. Far volare quei 21 grammi in giro per il mondo e sentirci soddisfatti di quanto gli altri sappiano finalmente cosa si sono persi. Morire per essere vivi, sparire per stare al centro della questione.

Dire che vogliamo morire è dire che stiamo soffrendo più di quanto riusciamo a soffrire e avere paura che questa sensazione non cambierà mai. Che mai più ci interesserà un tramonto, una barzelletta, un abbraccio, scartare un regalo.

Personalmente ho smesso da qualche anno di pensare al suicidio, però ho guardato a lungo il lastricato di travertino dal quinto piano quando ero più giovane. Credo che dentro la mia testa ci fossero dei cori da stadio che dicevano “fallo smettere, fallo smettere adesso, qualunque cosa sia, ti prego fa che smetta.” Ho smesso non perché abbia smesso di avere voglia di fissare il lastricato ogni tanto, ma perché mi sono arresa al fatto che la malinconia è la mia lente di ingrandimento sul mondo e non posso rinunciarci senza rinunciare anche a certe dolcezze e altre cose che mi abitano. Se dovessi trovarmi in una malinconia così grande da dimenticarmi per sempre il resto, allora partirei in un posto lontano, farei qualcosa di molto ma molto più matto che suicidarmi, camminerei scalza, mi farei i capelli corti e fucsia, affitterei le barche su un’isola, andrei a vivere in mezzo ai gorilla, non rinuncerei al colore delle sette mattina nemmeno se vincessi ogni cosa e la perdessi il giorno dopo. Il dolore non mi fa più paura, mi ricorda che sono viva e solo i morti non soffrono.

Se qualcuno mi dicesse che si vuole suicidare (e capita, capita, ma spesso è una provocazione) gli direi che ok, perché no, è una scelta, forse quell’ultima scelta di libertà che ci rimane come ha detto mi pare qualche sociologo. Gli chiederei come pensa di farlo, se pensa di lasciare una lettera, se saprebbe cosa scriverci e a chi, se ha delle cose di valore e cosa pensa di farci, gli chiederei qual è il suo piatto preferito, la sua canzone, il suo ricordo preferiti. Sarebbe forse tutto poco utile perché chi vuole ammazzarsi ad un certo punto lo fa e basta. Come quel racconto di Foster Wallace in cui un uomo è in piedi sul cornicione e tutti sotto gli dicono ma non lo fare ma sei matto, solo che non riescono a vedere l’incendio dentro la casa. L’uomo non vuole sdraiarsi sul marciapiedi per sempre, vuole solo scappare dall’incendio.

Se qualcuno mi dicesse che vuole ammazzarsi e me lo dicesse come si dicono le cose serie, gli direi datti 6 mesi, se tra 6 mesi ti senti ancora in questa merda, vai, ma l’ipotesi che tra 6 mesi tu non ci sia è una cosa che mi fa impazzire. Come Romeo e Giulietta che si ammazzano per niente se non per un pessimo tempismo.

Poi c’è l’altro grande punto, che tutti quelli che ci pensano con vigore dovrebbero tenere a mente e l’altro punto sono gli altri. Se per te la tua vita non vale più nulla, non puoi pretendere che non valga per nessun altro. Tu ti puoi pure togliere il problema, ma devi sapere che agli altri non glielo togli, glielo crei. E no, non sto qui nemmeno a far venire sensi di colpa, ma a dire quanti sensi di colpa rimangono alle persone che non muoiono.

Eppure molti a cui voglio bene della letteratura lo hanno fatto, molti la cui vita me la sarei presa di corsa, molti di cui né io né nessuno conosciamo nulla se non una produzione di parole bellissime, ma chissà a quale prezzo lo sono diventate. “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi.” No Cesare, tranquillo, nessun pettegolezzo, ti si vuole tanto bene in ogni caso ma sei stato uno stronzo però grazie per le tue parole.

Se vi viene voglia di ammazzarvi, non vi spaventate, non vuol dire che lo vogliate fare, non vuol dire quasi niente tranne che avete perso la mappa, che vi sentite molto soli e che probabilmente avete anche smesso di provare a spiegare sul serio come vi sentite. Voglio morire è un riassunto povero di una gamma di emozioni enorme, è un riassunto della paura di vivere.

Ecco mi è venuto in mente il titolo di quel libro, “Ricordati di me”. Le cose che dimentichiamo tornano così, quando ci distraiamo. Ricordati di te, di quanto fa schifo la tua vita adesso, di quante vite interessanti abbiano fatto davvero schifo in tanti punti, ricordati delle albe, ricordati di tua mamma, delle mattine di Natale di tanti anni fa e di quelle che puoi ancora costruire, di quanto è buona l’acqua quando hai sete, di quanto è bella la felicità quando l’hai data per scomparsa, di quanto si può ritrovare, di quanto ognuno di noi cammini con un grande dolore su una spalla, dell’odore del basilico, di un gatto acciambellato, dell’odore dei biscotti nel forno. Ricordati che nessuno è qui per essere perfetto per se stesso e per gli altri, siamo solo tutti camminanti senza mappa e senza cammino. Ricordati che pensare alla morte non ha mai ucciso nessuno, ma che nessuno dovrebbe morire prima di aver girato quell’angolo oltre al quale c’è qualcosa di diverso. Quale angolo non lo possiamo sapere, ma siamo camminanti, continuiamo a fare quello che sappiamo fare, quello che ha permesso a tutto il mondo di fare le migliori scoperte, l’unione dell’inquietudine e del camminare, per favore fai ancora un altro passo.