Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

L’ennesimo post su Chiara Ferragni & Co.

Amici, concittadini, connazionali, prestatemi occhio, se volete, se non volete non fa niente. Io vengo a lodare Chiara, non a disprezzarla. Perché Chiara è donna d’onore e anche gli altri, tutte donne e uomini d’onore. Tutti coloro che della loro fame ne hanno fatto una vita piena di soldi, complimenti, invidie, sogni rubati ai film. Credetemi, non sono una di quelle che si fomenta a tirare le pietre al primo peccatore, che si indigna quando qualcosa le sfugge, no. Io sono solo una che nella vita non sa fare infinite cose e, forse, proprio per questo, si diletta e si tormenta nel riflettere su quello che le accade intorno. Oppure sono sopratutto una che nella vita ha sempre faticato a schierarsi, sul credo politico, sulla fede, sulla psicologia di appartenenza, sulle questioni del buono e del cattivo. Per certi aspetti questa è la mia croce, per altri la ritengo la mia delizia. Alle manifestazioni andavo per capire non per urlare, i giornali li leggo sempre per capire, con le persone ci parlo non per giudicarle, diagnosticarle, infilarle in qualche anfratto dal quale poi mi posso distaccare e sentirmi liberata, come si fa col cambio di stagione e le sciarpe di lana e i costumi. Generalizzare è un po’ una pigrizia dello spirito, una scorciatoia, un cunicolo che dal non sapere mi porta al decidere e quindi al dimenticare. Per questo e per altri innumerevoli motivi non me la sento di prendere una posizione definitiva sulla questione di chi influenza chi, per quali ragioni e quanto. Però succede anche che io non riesca a smettere di pensare a certe idee, che si propongono e ripropongono (come i peperoni, i cetrioli, il cocomero e gli enigmi) e tra questi crucci labirintici della mia indisciplinata attitudine allo schieramento, c’è la questione di come la bellezza fisica e la ricchezza monetaria, si sparga nel mondo, elevandosi a potenza, trascinando nel vortice tanta gente che poi finisce per stare male perché non si sente abbastanza adatta.

Prima dell’estate sono andata dal mio parrucchiere di fiducia, dove una ragazza estremamente bella e anche molto simpatica si è occupata di tinteggiare i miei capelli con estrema cura e perizia. Durante l’opera, inevitabilmente data la mia natura chiacchierosa e la natura stessa del luogo parruccheria in quanto tale, siamo finite a parlottare tra di noi, su cose tipo la vita, i trucchi, i fidanzati. Ecco, lei così carina e giovane, venuta a conoscenza del mio mestiere di psi, si è sentita di raccontarmi come vivesse molto male alcuni aspetti dell’esistenza. Tra questi, su tutti, il confronto virtuale e poi anche reale, con le altre ragazze. Mi ha descritto il lungomare del posto in cui vive, una specie di percorso a ostacoli tra un tacco venti, un labbro a canotto e un glitter. Lei si sveglia alle 5 di mattina per sistemarsi in vista della giornata. Doccia veloce e poi al trucco. Due ore e mezza di preparativi per rendere la sua già bellezza, vicina agli standard del lungomare. Io dalla mia sediola mi sono sentita sprofondare, dal momento che, quando va di lusso, mi metto il burrocacao e il correttore e i tacchi ce li ho pure, ma sotto forma di scarpetta da signora, plantare comodo, base larga, una roba così e niente di più. Oh questo non vuol dire che non abbia i miei vezzi, sia chiaro, ma sicuramente i miei vezzi non mi torturano più di tanto. Però quando ero più giovane madonna se lo facevano. Non uscivo a buttare manco la monnezza senza l’eyeliner, se mia madre disgraziatamente mi faceva portare il carrello della spesa quando la accompagnavo al mercato, pregavo gli dei penati che la terra mi inghiottisse, almeno prima di incontrare il coattone di turno ossigenato di cui all’epoca ero invaghita. Poi vabbè, non dico che sia stato solo il passare degli anni a farmi passare le fisime, però sopratutto. Così senza troppo struggermi sono arrivate tutte quelle cose che tengono la mente impegnata, dalle bollette ai colloqui, alle naturali tristezze che naturalmente la vita ci infila dentro l’unhappy meal che ci viene servito. E l’eyeliner è schizzato in fondo alla classifica, il resto dell’esistenza in cima. Oggi a buttare la monnezza ci vado tranquillamente in ciabatte. Mica perché sono strafottente con la società, ma perché penso alla società non importi molto di stare a controllare Olimpia che scarpe s’è messa stamattina. Quindi sto forse cercando di dire che la questione è meramente, banalmente generazionale? Oddio, non credo, però anche. Quella ragazza soffre sul serio perché sente di essere fuori standard, soffre davvero perché il fidanzato l’ha mollata per una che non ha manco il canotto, ma proprio la nave da crociera in faccia. Lei, insieme a tante, a tanti, soffrono davvero. Non sono fragili, non sono stupidi, non sono roba da psicologi anche se poi finisce che ci diventano. Sono soltanto sottoposti notte e giorno, notte giorno, notte e giorno, a modelli che influenzano la loro realtà. Mi piacerebbe poter dire “sottoposti a persone influenti”, “vittime dell’intellighenzia”, ma non posso perché queste parole non c’entrano più. C’entra quanta invidia riesci a muovere nel cuore di chi se ne sta buono buono nella sua stanzetta a provare a sognare a che cazzo vorrebbe fare da grande, senza riuscirci tanto bene come potrebbe se fosse più libero da tutta questa costante pressione visiva che scorre incessantemente nei nostri piccoli apparecchi mobili sempre in mano. Insisto, non ne faccio una questione di causalità lineare, del tipo dato A quindi B, però che faccio? Evito di pensare che un po’ di causalità circolare non finisca per entrarci? Qualcosa, amici, cittadini, connazionali, qualcosa dovrà pure entrarci oppure sto delirando?

La parte più gattara di me vorrebbe urlare “Ao ma non lo vedete che in fondo in fondo, tutto questo esporsi non è da dive di Hollywood ma è proprio da mignottoni?” e ancora “Ao ma quanto delle mie chiappe devo mai esporre per sentirmi viva e sistemata?” Eppure ho sempre pensato che per vivere felici quanto basta servisse sopratutto farsi il culo, non sbandierarlo così voracemente. Sono una bacchettona che si avvia verso la vera vita adulta e perdendo tono muscolare e guadagnando rughe si mette a rompere le scatole su quanto sia vanesia la bellezza fisica? Certo, potrebbe anche essere, in fondo non sono mai stata la prima della sfilata, non sono bionda né dentro né fuori, non sono Miss niente. Mi starò difendendo dal mio essere così normale, cercando di aggredire con l’unica arma forse un po’ affilata del mio armadietto, cioè con quattro parole? Può essere, tutto ma proprio tutto può essere. Allora qualcuno mi spieghi perché mi sento così triste invece che così arrabbiata, cosa più congeniale alla natura che mi riconosco. Sono proprio dispiaciuta dentro, in fondo alla gola, in cima allo stomaco. La cosa che mi fa più male è che se c’è una cosa che mi lega alla vita in quanto luogo bello in cui vivere, sono le storie. Quelle che ho letto, quelle che ascolto, quelle che immagino, e nelle storie belle succede sempre che prima il protagonista soffre molto per qualche motivo, poi soffre ancora, e ancora, e ancora. Poi intravede un sentiero, lo prende, incespica, si rialza, incespica di nuovo e poi alla fine della fine, tutto graffiato ma pieno di avventura e gloria, arriva dove voleva arrivare. Io questo brivido della narrazione non sono disposta a sacrificarlo sull’altare della bellezza, non ancora. Ancora mi piacciono gli eroi, i modesti, i preoccupati, i dubbiosi e i coraggiosi. Ancora identifico in ciò che vorrei essere gesta che non somigliano per niente alla compulsiva esibizione di tutto quello che possiedo, ma di quello che sono. Paperino mi sta simpatico, Tina Modotti, il gatto con gli stivali, Tesla, Pavese, il radiofonista della Tenda Rossa, mio nonno che è tornato a piedi dalla Russia, i vecchietti che sorridono, Don Chisciotte, tutti i Giusti della poesia di Borges, Carver che scrive racconti nel suo garage di notte, Frida anche se se ne parla troppo, Giordano Bruno, Galilei, Robin Hood, il mio idraulico che non fa mai la cresta, Philippe Petit, Giovanna D’arco, Simenon, Moll Flanders, Rita Hayworth, Liz Taylor con tutti quei mariti, Steve Jobs con le sue magliettine, le mie amiche, i miei pazienti che sono supereroi, i miei genitori, me stessa quando ci provo fino in fondo. A me sta simpatica tanta gente. Però non ne posso più di vedere le solite quattro facce comparirmi davanti anche se io non lo scelgo e insieme a loro anche i loro parenti, i loro armadi, le assi delle loro tazze del cesso, poi ancora tette giganti e chiappe dappertutto e muscoli oliati e mai nessuno che sorride e se sorride sorride in maniera plastica ed esibizionista, sempre con i denti e mai con gli occhi.

Non è così leggero e semplice, non basta dire che qualcuno si è fatto da solo per dire che è stato intelligente, casomai è stato furbo, come gli spregiudicati, che poi del giudizio altrui non è vero che non se ne interessano perché vogliono piacere sempre, a tutti, a ogni costo. Io questa curva dell’eroe se non la vedo non mi emoziono perché non mi arriva niente, tranne un processo di identificazione forzata che mi ricorda le litanie delle sette, che a forza di sentirle finisci per crederci pure tu. Essere buoni venditori di se stessi, per me, che non sono nessuno se non quella che sono, vuol dire che a un certo punto smetti avere fame di avere e cominci a dare, ma a dare veramente, mettendoti da parte proprio perché sei stato così furbo e così avido e così al centro. Usque tandem abutere, Chiara Ferragni & Co., patientia nostra?

Perché se io fossi Chiara Ferragni & Co. e Chiara Ferragni & Co. Olimpia, qui ora ci sarebbe un’Olimpia che proverebbe ad abusare veramente di tutto quel potere, invitando ognuno di voi a non essere come loro, a essere quello che vi pare di essere, quello che sognavate sul serio di essere, prima che i sogni di qualcun altro coprissero i vostri con i loro, prima che tutta questa fame del possedere sempre di più vi facesse diventare ciechi e stronzi, prima di scordarci che tanta influenza, oh quanta influenza, potrebbe ancora servire a spingere verso la libertà, al posto di questa condanna alla tristezza eterna, visto che l’obiettivo è sempre spostato più avanti. Più cose, sempre più cose fino a seppellirvici sotto a tutte quelle cose e dimenticare qualsiasi altra ricchezza, qualsiasi altra bellezza. Io di quel potere ne approfitterei fino a sconquassare i vostri spiriti e a donare ad ognuna della vostre ferite una lingua così eloquente da spingere fin le pietre del mondo a sollevarsi, a rivoltarsi.

 

Olimpia Parboni Arquati