Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

7 lavori orrendi che mi è capitato di fare

Non scriverò di alcuni lavori di merda che ho fatto per lamentarmi di quanto sia stato difficile fare la psicoblablablabla…no. È stato difficile ma magari ve lo racconterò un’altra volta.

Stasera mi va solamente di fare un memorandum di umiltà a me stessa e a chiunque si senta arrivato oppure snobbi senza nozioni di causa lo sporcarsi, più volte, le mani.

Ogni riferimento a cose o persone non è puramente casuale ma ovviamente non c’è niente di personale. Ho cercato di imparare da tutto quello che mi è successo e spero di non smettere mai, però rimane il fatto che in alcuni momenti durante quei momenti di merda, ho sognato intensamente di imbarcarmi su un cargo battente bandiera qualsiasi e dire addio a tutti quanti per sempre e per un giorno in più. Però, e il però è grandissimo, di ognuno di quei momenti ringrazio moltissimo tutti quelli che c’erano perché alla fine è la gente che hai intorno che ti salva le giornate, anche nel lavoro peggiore di questo mondo così tanto infame.

1- Prima di compiere l’età legale dissi di sì a distribuire copie di un giornale sportivo che visse pochissimo. Ogni mattina alle 5:30 uscivo di casa e alla stazione metro Piramide un tipo che non mi ha mai salutata mi lanciava da un furgone in corsa un pacco gigante tipo cadavere in un film di mafiosi. Le due ore successive erano tutta una lotta con due zingarelle e qualche signore anziano che cercava di rubarmi le copie e poi rivendersele o portarsele a casa per farci chissà che cosa. Indossavo un gilet giallo fluo così, giusto per essere sicura che mi si potesse notare anche dalla Tiburtina. Poi andavo a scuola facendo finta di niente, con le mani tinte di nero e in testa tutta la classifica fino alla serie C.

2- A 18 anni comincio a lavorare nel peggior bar di Caracas-Testaccio e per peggiore intendo che rimaneva aperto fino alle 6 di mattina e c’erano almeno 4 o 5 turni di vomitate generali nei bagni che a turno bisognava ripulire. La prima volta tenevo i mignoli alzati, dopo 4 anni lanciavo lo scottex da due metri di distanza e ricoprivo tutto sponda per sponda come un campione di biliardo e senza sporcarmi nemmeno un dito. Verso le 11 arrivavano gli americani che si erano bevuti pure l’acqua della Fontana di Trevi, all’una e mezza ballavano tutti dovunque compreso il bancone, alle 3 partivano le prime risse. Una volta che si era fatta mattina e io non tornavo venne a prendermi mia madre e mi trascinò a casa per un orecchio dopo aver fatto il sermone pure al meccanico a fianco che ormai aveva riaperto.

3- Al terzo anno di psicologia mi ritrovo vestita come un dottore nel più grande e massiccio ospedale della capitale. Non posso dire che fosse un lavoro perché non mi pagavano ma alzarsi tutte le mattine e stare 8 ore nello stesso posto a fare cose per cui di solito ti danno due spicci, è comunque un lavoro. Reparto di psichiatria di cui ricordo con affetto ogni persona che allora mi attaccò la pippa su quanti omini verdi vedesse o qualunque altra cosa perché non lo sapevano ma io li ascoltavo sempre con attenzione e senza giudicare. Cosa che invece mi toccò fare con la capo sala, donna cattiva come la sete nel deserto che trattava malissimo persino il dispensatore dell’acqua. Io passavo le giornate a cercare di ritrovare la strada tra i corridoi lunghissimi e a chiacchierare con un simpatico vecchietto infermiere che ci regalava i panini avanzati a patto che dessimo una rapida occhiata ai calcoli renali che teneva in un carrello con cui passeggiava. In 12 mesi non sono mai riuscita a prendere l’uscita giusta ma sbagliavo sempre ascensore prendendo quello per il trasporto salme, cercando di scomparire schiacciata contro le pareti per la vergogna. Quando hai 19 anni certe cose sono troppo grandi, come quel maledetto camice che mi dovevo mettere senza averne la stoffa.

4- Finiti i cinque anni di università mi ritrovo in una scuola superiore ad aiutare i ragazzi con problemi. Quelli che una volta si chiamavano duri di comprendonio, oggi di tutto e di più ma di solito handicappati. Non prendetemi per buonista se vi dico che loro erano anche e spesso un gioia e si cercava di dare al massimo anche quando sembrava esserci niente. Ma la scuola in sé era completamente fuori di testa. Ci tenevano tutti in una stanzetta in fondo a un corridoio, chiamata appunto Aula H, ma vi pare cosa da fare? E lì dentro sembrava un circo, nessuno sapeva che fare e intanto volavano pennarelli, fogli, quaderni, scarpe, orecchini, bestemmie. Poi c’era il momento del bagno e a quel punto scomparivano tutti o si litigava talmente tanto su chi dovesse portarci i ragazzi, che ogni tanto i poverelli si pisciavano sotto e fine dei giochi. Se non ce l’ho fatta non è perché sia una vigliacca ma perché per certe cose non serve una vocazione, ma un sistema che ti aiuti a farlo senza rischiare di impazzire non per i disturbi ma per il contesto.

5- Un’estate ho lavorato in un call center, ma non in uno qualunque, eh no. Niente coretti motivazionali a inizio giornata e medaglie al valore a fine mese. Un sottoscala caldissimo e senza finestre tranne una piccoletta in fondo in fondo. Una caposquadra che passava il tempo alle macchinette del corridoio a fare controlli qualità sulle merendine in ricambio e un colloquio fatto da un tipo pieno di forfora che non mi aveva neppure guardato in faccia. Al netto si prendevano 0 euro l’ora e il compito era rompere i coglioni a povera gente che viveva in Spagna per chiedere loro quanto contenti fossero delle rate della loro macchina, tramite un semplice questionario che durava 40 minuti. Io non so se vi è mai venuto in mente, ma tenere la gente a fare i controlli qualità, pagandoli zero e pure senz’aria non dovrebbe darvi il diritto di pubblicare certi dati come se fossero scientifici che sono fatti alla cazzo di cane. Nel migliore dei casi.

6- Ho passato un buon annetto e mezzo a fare la cameriera in un ristorante a gestione familiare. Cioè mamma, papà, figlio capricciosetto di 13 anni e amante della mamma che frequentava tutte le sere. Signori, mi hanno davvero trattata come una figlia e ho mangiato mille cose buonissime. Però il contesto familiare voleva dire che ogni giorno stavo sotto il tiro incrociato di uno che odiava l’altra, l’altra che si lamentava di uno, il figlio che urlava cose a caso, il padre che gli lanciava gli zoccoli dalla cucina, l’amante che si piazzava al bancone a fare gli occhioni alla signora che nel frattempo mi tirava il braccio. E lì fuori 70 coperti che aspettavano soltanto me, tranne il sabato che c’era anche un’altra ragazza che aveva impicci con non so chi e beveva mentre lavorava come nemmeno il più incallito dei clienti al tavolo, lasciando la sala piena di cose sparse per terra e dovunque. Tutto questo succedeva nel mio completo e assoluto silenzio generale perché i problemi erano sempre tutti già prenotati peggio dei tavoli.

7- Un inverno decido con un’amica di provare a vendere dei vestiti con un’Ape Car, ignara del fatto che la proprietaria del mezzo e degli abiti avessi i permessi diciamo a metà. Quindi la mattina ci incontravamo in un punto lontanissimo di questa città e con grande e immensa fatica cercavamo di far uscire l’apetta demmerda dal suo garage. Ecco, io non so se qualcuno di voi l’ha mai guidata ma non è una macchinina a scontro, è più come un dannato traghetto. Per ingranare la retro dovevamo essere in due e comunque pregare prima e pure un po’ dopo. Poi facevamo i chilometri con la gente che ci mandava madonne di tutti i colori perché il faceva fumo come un incendio ed era tutto uno smontare e rimontare maglioni e magliette o perché pioveva o perché c’era la municipale. La notte mi sognavo i clacson e le marce e poi, di nuovo, quel cargo battente una bandiera qualunque ma senza la retro.

Non mi pento di niente ma non rifarei tutto e so benissimo che è pieno di gente che è costretta ogni giorno a fare un lavoro orrendo per forza. Vi dico tenetevi strette le persone migliori che avete intorno perché quando tutto il resto fa schifo voi e loro potrete sempre non farlo. E ridere come a scuola nei banchi quando non c’era proprio un cazzo da ridere.

La riflessione è più lunga, larga e dolorosa. Non sono capace a dire tutto quello che penso ma il lavoro di merda può farci diventare di merda anche a noi e questo non dovrebbe succedere mai. Sarà un pensiero ingenuo, senz’altro ma non mi voglio arrendere e anche a costo di perdere molto cercate sempre di dire no quando le cose non vanno bene per niente.

Qualche hanno fa lessi un articolo su un manager andato in disgrazia che si era ammazzato. Aveva moglie e figli e migliaia e migliaia di debiti. Nella stanza dove lo trovarono c’era un biglietto e il biglietto diceva: “Quando ero piccolo sognavo di cambiare il mondo, ora vorrei soltanto uscire da questa stanza con dignità”.

Anche se suona vuoto e forse disperato, che questo possa non succedere mai a nessuno, mai più.

 

Olimpia Parboni Arquati

Roma bastarda

Ti odio da troppo tempo e quindi non riesco a lasciarti, maledetta Grande Pesca. Tu con il tuo arancione dappertutto, tu che ti infuochi a ogni tramonto, tu che quando piove diventi Atlantide anche se dopo duemila anni potresti anche imparare a reagire quando il cielo lacrima, maledetta tu che mi togli un sacco di cose e poi qualcuna me la dai pure, così io non me ne vado mai ma ci penso sempre.

Itaca piena di buche, piena di macchine, piena di stronzi.

Mi hanno portato via da te quando non sapevo ancora parlare e sono 32 anni che mi manchi anche quando stiamo vicine. Più ti vedo, meno ci capiamo. Meno ci capiamo, più non ti sopporto.

Roma è tanti paesi uno dentro l’altro, Roma non è la capitale dell’impero, Roma non è nemmeno una città, è una giostra che gira al rumore dei clacson e degli insulti.

In questa città non siamo tutti uguali, qui dovunque vai ti guardano ancora le scarpe. Roma cafona, Roma parvenue, Roma vecchia ma adolescente. Roma che ancora si rifugia nel nome dei Parioli ma anche Roma che cerca di riscattare il nome delle borgate. Qui si imita il futuro rimanendo incastrati nel passato. Roma sei solo un centurione con la scopa in testa al posto delle piume, Roma te la tiri senza motivo, Roma coatta de paese vestita a festa fuori dalle chiese.

Qui capita pure che sulle strisce ti facciano passare, ma te lo devi merita’. Capita pure che con te siano gentili, ma te lo devi suda’. Ogni volta che esco di casa ho paura di litigare con qualcuno o che qualcuno litighi con me. Quando pago e mi chiedono gli spicci, mi guardano male se non ce li ho. Eh no, infatti, ce li ho ma mi piace camminare sotto un cielo di insulti, con le tasche piene di monete. Quando ho aperto la partita iva e ho chiesto “Tutto qui?” mi hanno risposto “E non lo so, che vole pure un caffè?“. Quando sono entrata zoppicando al pronto soccorso mi hanno detto “Ao ma come cazzo cammini?“.

Roma si discute e non si ama, facciamola finita con queste glorie antiche e immobili. Città sporca, città mortificante, città mafiosa, città che mi ha insegnato tutte le parolacce che conosco e me le fa sgranare come le palle del rosario.

Roma ti prego, proteggi questi figli tuoi che ti riempiono di cicche spente e di rancori. Roma che farai la stupida anche stasera e non mi darai mai una mano a famme dì de sì.

Pesca maledetta ma tu te lo chiedi mai che cos’è la gentilezza e cos’è la felicità? Tu ti rendi conto che qui la gente si spara per i parcheggi? Ma non hai guerre migliori da metterci tra i piedi? Ma tu, tu che vedi starci male, ma perché non ci lasci andare via?

Saranno i tuoi pini che ti portano fino al mare e l’idea del mare che alla fine ti accompagna. Saranno quei vecchi che fortunatamente ancora incontri, seduti sulle panchine, a borbottare in un dialetto che si è praticamente perso. Tutto quel verde delle ville e quello del tuo fiume pieno di ponti pieno di statue.

Deve essere l’odore delle pizzette rosse dei forni, l’odore dell’asfalto a forma di groviera quando piove e quando arriva Luglio. Saranno tutte quelle canzoni che in mezzo ci mettono il tuo nome e noi che le cantiamo, come una serenata a una che alla fine non te la darà mai ma ti ci fa credere perché è bella. Sporca ma bella, disordinata ma bella, pericolosa ma bella, bella, bella li mortacci tua.

Se io non me ne vado è solo perché quando l’estate torna voglio esserci sempre, a trovare parcheggi impossibili sotto il sole di agosto e a cercare sorrisi impossibili sotto il grigio della tangenziale. Non me ne vado perché per troppo tempo mi sono chiesta come saremmo state insieme e anche se non ci ameremo mai, io lo so che ci vogliamo bene come si può volere a un vecchio amico dell’asilo che non sopporti ma senti il dovere di rispettarlo perché ti riporta a come eri e a come volevi essere.

Io ti odio perché mi stai facendo diventare uguale a te, cattiva ma mai fino in fondo, aggressiva ma mai fino in fondo e bella solo sotto la luce dei tramonti.

E forse in qualche modo io ti amo anche perché amore è cercarsi senza trovarsi mai e volersi senza capirsi mai. Mai fino in fondo.

Continuerò a inciampare sui marciapiedi e a far sbranare le gomme dalle tue strade. A prendermi gli insulti che non mi merito e farmi squadrare i vestiti dai tuoi figli stronzi e cafoni come ho imparato a essere anche io, nelle ore di punta e nelle ore morte. Raccoglierò i fazzoletti sporchi che la vicina di sopra mi lancia nel giardino tutti i santi i giorni, senza dire un fiato, perché ai romani basta una guardata storta per fare male. Starò sempre senza monete per potermi sentire in colpa con i cassieri e tornare sempre a casa con la voglia di sbatterti al muro e dirti tutto quello che penso.

Anche adesso che non so più che cosa sto dicendo, che i termosifoni sono spenti e sto morendo di freddo anche se qui l’inverno vero non arriva mai.

Forse è questo che non me ne fa mai andare, il tuo essere quasi un sacco di cose ma non schierarti mai da nessuna parte. Se fuori da qui sento parlare male di te io metto in pratica tutto quello che mi hai insegnato e infamo tutti perché non si devono permettere. Forse solo noi ti possiamo trattare male e dirti tutto quello che pensiamo perché siamo tutti prepotenti come ci vuoi tu.

Se anche alle madri si deve parlare dell’odio allora oggi lo sto facendo e non so dirti se sarà la prima volta o l’ultima ma posso dirti che io non me ne vado e lo faccio solo perché sei tu che cerchi sempre di mandarmi via e ti dimentichi che so’ de coccio come le anfore, dura come i sanpietrini, solida come il marmo.

Roma tu mi levi la vita, ma io che so’ coatta come mi hai voluto tu, io ti guardo negli occhi, te lo dico in faccia e no che nun te lascio.

Quando non ne potrai più allora fammelo sapere che t’aspetto fuori nel cortile e vediamo chi vince sta rissa. Mi levo tutti gli anelli e ti do tante di quelle botte perché prenderti per il collo è l’unico modo per abbracciarti ancora.

Il bello di essere sfigati

Quando avevo sette anni i miei genitori fecero una grande festa per il mio compleanno e io la passai nascosta dentro l’armadio a guardare gli altri che si divertivano in giardino. A dodici, se stavo male, spiavo il ragazzino che mi piaceva col binocolo mentre giocava nel cortile della nostra scuola che era proprio lì di fronte. Due anni dopo tornavo dalle vacanze e mi inventavo nomi di piccoli principi azzurri che mi avevano voluto bene durante l’estate perché tutti avevano una storia da dire, tranne me.

All’alba del giorno dopo la mia festa di diciott’anni mi svegliavo sul divano di casa dove mi ero addormentata prima di mezzanotte, camminavo facendo lo slalom tra vari amici distesi ovunque che avevano fatto l’alba nel mio salotto, mi mettevo la giacca, uscivo in terrazza, mi accendevo una sigaretta e confessavo a me stessa di essere nient’altro che una grandissima, ma grandissima, sfigata del cazzo.

Da quando avevo memoria non ne avevo azzeccata manco una, non mi ero mai sentita nel posto giusto al momento giusto, mai detta la frase giusta alla persona giusta, niente. Un’attrice non protagonista nel cinema della mia vita, praticamente una comparsa che sparava qualche parola che nessuno si sarebbe ricordato mai tipo quella che serve gli hamburger in Pulp Fiction. Ma quale? Appunto.

Passavo ore infinite a pensare quanto sembrasse meglio tutto ma proprio tutto quello che capitava agli altri. Tutto più felice, tutto più fico, più facile, più bello.
Tutto molto di più di quanto avessi o sapessi o potessi fare io.
Non mi ricordo quanto spesso mi ammazzassi di pianti in camera, con la porta chiusa a chiave e la faccia dentro al cuscino, ma comunque stavamo tra le due e le duecento volte al mese.

Ma volete sapere la parte peggiore di tutta questa cosa qual era? La parte peggiore è che forse non lo sembravo nemmeno una grandissima sfigata del cazzo, sembravo normale. Avevo le scarpe che avevano tutti e tutti gli accessori che avrebbero fatto dire a tutti “toh, niente di meno, niente di più“. Al massimo qualcuno avrebbe detto che ero giusto un po’ strana. Aggettivo che oggi amo più di qualsiasi complimento e vorrei pure vedere, co’ tutta la fatica che faccio per stare lontana dalle cose normali. Ma rimane il fatto che quel cuscino sempre umido mi teneva sempre sul pezzo e mi ricordava quanto fossi sfigata almeno nell’anima se non nell’abito.

Poi è successo quello che succede a tutti: il tempo. A 19 anni inizio a lavorare come cameriera, più che altro per avere sempre una risposta pronta quando si trattava di avere piani per il fine settimana. E allora comincio a fare le 5 di mattina per forza, a conoscere gente per forza, a sorridere prima per forza e poi addirittura per piacere. Due anni dopo cambio città per continuare a studiare e mi ritrovo in un posto molto piccolo dove imparo una delle lezioni più grandi che ho mai imparato. La imparo anche qui, più per forza che per amore ma alla fine non cambia niente perché la imparo sul serio.

Eravamo pochi, pochissimi. Niente a che vedere con l’idea che mi ero fatta degli splendidi anni di college che avevo rubato dai film. Sembravamo i superstiti di Lost costretti insieme dalle contingenze e scopro il grande paradosso della maggior parte degli sfigati nell’anima: scopro che non solo mi sentivo sempre fuori da tutto ma io per prima tenevo sempre tutti fuori. Ero diventata una miscela letale, quella che si sente un’imbecille ma finisce per sembrare una stronza. Non raccontare mai quasi niente a nessuno, convinta che tanto non si sarebbe capito o non mi sarei spiegata, mi aveva fatto diventare snob, una grandissima snob del cazzo.

A quel punto avevo capito abbastanza per cominciare a parlare sul serio con gli altri diversi dal mio cuscino e posso dire di non avere mai smesso. Ovviamente non è una cosa che ho finito di imparare e mi capita spesso di ritrovarmi ancora ingabbiata nell’abbraccio della sfiga. Tutte le volte che gli altri mi sembrano migliori o diversi ci ricasco sempre e per un attimo mi rimetto la tutina da supersfigata con la faccia da stronza ma poi me la faccio passare semplicemente sorridendo per prima, parlando per prima e riscoprendo ogni volta che certe malinconie ci vengono sopratutto perché siamo pieni di pregiudizi su noi stessi. Così pieni che non prendiamo nemmeno in considerazione tutti i pregiudizi che possono avere gli altri, non su di noi, ma su loro stessi.

Forse ogni essere umano che si guarda allo specchio oppure dentro trova sempre un seme di sfiga e forse raccontarcelo è uno dei modi migliori per stare attenti durante tutte le prossime volte ad essere noi quelli che fanno il primo passo perché sì, va bene lo specchio, ma anche le facce degli altri ci raccontano come siamo. E allora diamoglielo questo sorriso, pronti a correre il rischio di essere un po’ meno niente di quello che ci racconta il nostro cuscino.

E poi, la cosa veramente bella di essere un po’ sfigati è che nel frattempo che la sfiga ti invade, tu comunque in qualcosa ti devi impegnare per stare a galla e sentirti più pieno. Io non ho mai avuto quello stesso appetito per le cose belle che avevo quando piangevo. Mi sono circondata di musica e libri e frasi e saggezze e cose importanti scritte con la bomboletta spray sulla porta del bagno. E poi ancora sogni, tantissimi sogni.

Molto prima di sentirmi una sfigata del cazzo leggevo sempre una storia. Quella di una bambina a cui un mago regalava 3 noci, dicendo che dentro c’erano cose che le avrebbero salvato la vita in momenti diversi. Lei gli dà ascolto e se le porta in tasca fino a che succede davvero che ogni cosa nascosta lì dentro finisce per salvarle la vita. Quindi tutto quello che fate e imparate mentre vi sentite sfigati, non lo buttate, tenetelo in tasca e abbiate pazienza ma abbiate anche il coraggio di parlare per primi.