Quando avevo sette anni i miei genitori fecero una grande festa per il mio compleanno e io la passai nascosta dentro l’armadio a guardare gli altri che si divertivano in giardino. A dodici, se stavo male, spiavo il ragazzino che mi piaceva col binocolo mentre giocava nel cortile della nostra scuola che era proprio lì di fronte. Due anni dopo tornavo dalle vacanze e mi inventavo nomi di piccoli principi azzurri che mi avevano voluto bene durante l’estate perché tutti avevano una storia da dire, tranne me.
All’alba del giorno dopo la mia festa di diciott’anni mi svegliavo sul divano di casa dove mi ero addormentata prima di mezzanotte, camminavo facendo lo slalom tra vari amici distesi ovunque che avevano fatto l’alba nel mio salotto, mi mettevo la giacca, uscivo in terrazza, mi accendevo una sigaretta e confessavo a me stessa di essere nient’altro che una grandissima, ma grandissima, sfigata del cazzo.
Da quando avevo memoria non ne avevo azzeccata manco una, non mi ero mai sentita nel posto giusto al momento giusto, mai detta la frase giusta alla persona giusta, niente. Un’attrice non protagonista nel cinema della mia vita, praticamente una comparsa che sparava qualche parola che nessuno si sarebbe ricordato mai tipo quella che serve gli hamburger in Pulp Fiction. Ma quale? Appunto.
Passavo ore infinite a pensare quanto sembrasse meglio tutto ma proprio tutto quello che capitava agli altri. Tutto più felice, tutto più fico, più facile, più bello.
Tutto molto di più di quanto avessi o sapessi o potessi fare io.
Non mi ricordo quanto spesso mi ammazzassi di pianti in camera, con la porta chiusa a chiave e la faccia dentro al cuscino, ma comunque stavamo tra le due e le duecento volte al mese.
Ma volete sapere la parte peggiore di tutta questa cosa qual era? La parte peggiore è che forse non lo sembravo nemmeno una grandissima sfigata del cazzo, sembravo normale. Avevo le scarpe che avevano tutti e tutti gli accessori che avrebbero fatto dire a tutti “toh, niente di meno, niente di più“. Al massimo qualcuno avrebbe detto che ero giusto un po’ strana. Aggettivo che oggi amo più di qualsiasi complimento e vorrei pure vedere, co’ tutta la fatica che faccio per stare lontana dalle cose normali. Ma rimane il fatto che quel cuscino sempre umido mi teneva sempre sul pezzo e mi ricordava quanto fossi sfigata almeno nell’anima se non nell’abito.
Poi è successo quello che succede a tutti: il tempo. A 19 anni inizio a lavorare come cameriera, più che altro per avere sempre una risposta pronta quando si trattava di avere piani per il fine settimana. E allora comincio a fare le 5 di mattina per forza, a conoscere gente per forza, a sorridere prima per forza e poi addirittura per piacere. Due anni dopo cambio città per continuare a studiare e mi ritrovo in un posto molto piccolo dove imparo una delle lezioni più grandi che ho mai imparato. La imparo anche qui, più per forza che per amore ma alla fine non cambia niente perché la imparo sul serio.
Eravamo pochi, pochissimi. Niente a che vedere con l’idea che mi ero fatta degli splendidi anni di college che avevo rubato dai film. Sembravamo i superstiti di Lost costretti insieme dalle contingenze e scopro il grande paradosso della maggior parte degli sfigati nell’anima: scopro che non solo mi sentivo sempre fuori da tutto ma io per prima tenevo sempre tutti fuori. Ero diventata una miscela letale, quella che si sente un’imbecille ma finisce per sembrare una stronza. Non raccontare mai quasi niente a nessuno, convinta che tanto non si sarebbe capito o non mi sarei spiegata, mi aveva fatto diventare snob, una grandissima snob del cazzo.
A quel punto avevo capito abbastanza per cominciare a parlare sul serio con gli altri diversi dal mio cuscino e posso dire di non avere mai smesso. Ovviamente non è una cosa che ho finito di imparare e mi capita spesso di ritrovarmi ancora ingabbiata nell’abbraccio della sfiga. Tutte le volte che gli altri mi sembrano migliori o diversi ci ricasco sempre e per un attimo mi rimetto la tutina da supersfigata con la faccia da stronza ma poi me la faccio passare semplicemente sorridendo per prima, parlando per prima e riscoprendo ogni volta che certe malinconie ci vengono sopratutto perché siamo pieni di pregiudizi su noi stessi. Così pieni che non prendiamo nemmeno in considerazione tutti i pregiudizi che possono avere gli altri, non su di noi, ma su loro stessi.
Forse ogni essere umano che si guarda allo specchio oppure dentro trova sempre un seme di sfiga e forse raccontarcelo è uno dei modi migliori per stare attenti durante tutte le prossime volte ad essere noi quelli che fanno il primo passo perché sì, va bene lo specchio, ma anche le facce degli altri ci raccontano come siamo. E allora diamoglielo questo sorriso, pronti a correre il rischio di essere un po’ meno niente di quello che ci racconta il nostro cuscino.
E poi, la cosa veramente bella di essere un po’ sfigati è che nel frattempo che la sfiga ti invade, tu comunque in qualcosa ti devi impegnare per stare a galla e sentirti più pieno. Io non ho mai avuto quello stesso appetito per le cose belle che avevo quando piangevo. Mi sono circondata di musica e libri e frasi e saggezze e cose importanti scritte con la bomboletta spray sulla porta del bagno. E poi ancora sogni, tantissimi sogni.
Molto prima di sentirmi una sfigata del cazzo leggevo sempre una storia. Quella di una bambina a cui un mago regalava 3 noci, dicendo che dentro c’erano cose che le avrebbero salvato la vita in momenti diversi. Lei gli dà ascolto e se le porta in tasca fino a che succede davvero che ogni cosa nascosta lì dentro finisce per salvarle la vita. Quindi tutto quello che fate e imparate mentre vi sentite sfigati, non lo buttate, tenetelo in tasca e abbiate pazienza ma abbiate anche il coraggio di parlare per primi.