Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

Raccontini-Over&Out

OVER & OUT

(Codice di fine trasmissione nella procedura radiotelefonica)

Non pensava che le cose potessero andare così, si guardò intorno con aria sconsolata e si incamminò verso l’uscita.”

Ecco, un buon narratore l’avrebbe descritta così: dall’alto. Invece lei ci sta ancora dentro a quella cucina assurda, coi ritagli di giornale che gridano ribellione attaccati al frigo, l’orologio fermo all’ora legale in pieno inverno e quella patetica cerata sul tavolo con disegnate le ricette regionali dell’Umbria. Però è vero che non l’avrebbe immaginato mai. Quando l’aveva conosciuto lui era brutto ed era pure stronzo. Di una stronzaggine grossolana, da sportellista di un ufficio pubblico in ora di chiusura. E si vestiva male: la prima volta portava un maglione arancione con le trecce. In prospettiva si sarebbe presa a schiaffi da sola, negli infiniti dormiveglia sudaticci, per non aver riconosciuto il diavolo anche solo da quel particolare, in quel dettaglio di cattivo gusto che già di per sé valeva un pugno. In un occhio.

Ma quest’ultimo punto odora già di presa coscienza, mea culpa e futuro, torniamo in cucina: piove e lui le offre persino un bicchiere di vino mentre, con quell’inflessione dialettale da romano di barzellette, le ripete: Io non so che ditte, nun te amo, capito? Io nun te amo.”

Gli esseri umani immaginano i graffi dell’amore in endecasillabi formali e dizione alla Vittorio Gassman che legge il menù.Mi prenderà le mani e, occhio nell’occhio, mi dirà che l’esistenza grava e riempie così tanto da non concedere il lusso di un amore. Mi dirà che la patria lo chiama a rispondere in un posto molto lontano, che la santità lo invita alla castità, che motivi familiari offuscano la sua anima, che la salute lo obbliga ad una clinica spirituale tibetana e non vorrebbe mai condannarmi ad una vita di monaci calvi e bacche secche. Mi dirà che il cane gli ha mangiato il quaderno in cui ci aveva disegnato il suo cuore. Pur sempre cagate ma, almeno, sonoramente ritmiche.

Gli esseri umani in fondo sperano di poter tornare a casa e piangere come nei film, strappando Kleenex (ma poi chi cazzo li ha mai comprati i kleenex?) da una scatola pronta sul comodino, mentre un’immaginaria radio ti regalaI can’t liiive, if living is withouuut you. Gli esseri umani sperano di poter cambiare la superficie e pure il fondo. È così aveva fatto anche lei, trasformando quel maglione orrendo in cotone fresco, le frasi da osteria in versi di un Neruda postumo. Ma la realtà, alla fantasia, je spacca sempre er culo, come proprio lui aveva detto una volta e lei, per ostinato spirito di contrarietà, quella realtà di egoismi rotondi, docce saltate e giochetti di potere l’aveva fatta diventare l’odore dell’estate, fiori dal cemento e indiscusso amore. La vigliaccheria in timidezza, diamanti dalla merda: ecco che cosa aveva fatto.

La pioggia aumentava, aumentava il battito, aumentavano le sigarette spente, l’orizzonte pareva un punto nero. E allora lei lo fa: si alza di scatto, mette le mani in tasca e tira fuori due evidenziatori abbandonati raccolti nel parcheggio, li sbatte sul tavolo e dice: Mettitici in evidenza sto cazzo, tanto scomparirai lo stesso. Esce di casa, le orecchie le fischiano, sbatte la porta, dio quanta pioggia, ha detto no. No al colesterolo cattivo, no a chi le ha detto di no, no all’arancione, al malamore, alle ricette regionali sbiadite, al vino scrauso. No era stata la sua prima parola, a sua nonna negli anni ottanta.

E no che non l’avrebbe fermata il portone del cancello chiuso a chiave, infatti lo scavalca, goffa come un ciccione alla maratona, ma ci riesce. Le formicolano le gambe per il salto mentre cerca le chiavi della macchina in una borsa enorme e piena di oggetti che al freddo delle mani non si lasciano distinguere. Entra nella scatola di latta con la gloria addosso di chi arriva secondo su due, la bellezza dei vinti col trucco sciolto a forma di panda, il cuore una briciola e il sorriso all’ingiù di chi, non sapendo che all’equazione mancava il fattore X, ha preferito mettere in dubbio se stessa pur di ottenere un risultato. Accende la radio e sbatte su tutti i tasti finché non smettono le parole e sente una melodia qualunque. Arrivata a casa dirà allo specchio che è stata bravissima, intanto alza il volume e

tremando e tremando forte,

lei ballerà sulle stelle accese e scoprirà,

scoprirà l’amore

l’amore disperato.

Disperato, oh“.

 

Raccontini-Come non perdersi in un bicchiere d’acqua

Teneva i piedi vicini e con le punte rivolte all’indentro, come un bambino timido al centro di una festa piena di gente. Invece non c’era nessuno. L’acqua cadeva a secchiate stracolme, col peso specifico di tonnellate di piombo e sembravano i cori senza parole ma pieni di rabbia e rumore che sentiva ogni volta allo stadio.

Non un volto, una gamba, un braccio, un piede bagnato. Soltanto un mantello di milioni di spilli che inondava, letteralmente, tutti i pensieri che venivano a galla.
Macchine calde e protette alzavano schizzi ai bordi del marciapiede, tutt’intorno finestre sbarrate ma piene di luce al sapore di cioccolata bollente, densa e preclusa.
Il mondo sembrava sempre molto più esperto a gestire i problemi di lui, che invece sognava arcobaleni mentali, mentre sfondava con i pugni stretti le tasche, per trovare il caldo, il sereno, la pentola proprietà del folletto.
Il mondo invece sembrava averci sempre un impermeabile, nelle tasche. Un infallibile piano B per quando le cose cominciavano a fare acqua da tutte le parti.
Maledetti voi che avete il culo asciutto e parato, pensava, ma come fate a fiutare tormenta e trovare riparo? Mentre a me tocca solo questo scalino stretto e lontano da casa.
Aveva sempre odiato la pioggia, da quando sua madre lo mandava all’asilo con ai piedi le buste di plastica di un supermercato poi andato fallito, invece degli stivali di gomma che avevano su disegnati i personaggi dei cartoni animati e che ti davano una scusa rotonda e perfetta per amare tutte quelle pozzanghere. Invece degli stivali che avevano tutti. Tutti gli altri tranne che lui.
Era questo il pensiero che lo avrebbe fatto affogare anche in un deserto di sabbia: l’essere impreparato lo rincorreva come un ascendente sbagliato fa con i figli nati sotto una stella cattiva.
L’unico scemo senza la maschera nelle foto di classe fatte a carnevale, il bambino con la tuta spaiata e la felpa dell’Ape Maya. Eredità di sua cugina maggiore che un po’ si vestiva da maschio e quindi, alla fine, era uguale.
A dodici anni in panchina a calcetto, a quindici l’apparecchio fisso e il primo bacio verso i 21 al Camping Rubicone di Savignano a Mare, con una tedesca grassa di cui non ricordava il nome. Ma non dimenticava il rumore del traffico sudato sull’Adriatica.
Poi la chimera di una laurea “spendibile”, come l’aveva chiamata allora per giustificare il suo sogno mediocre e pratico, preso da cassetti spalancati, di partecipare attivamente al benessere domestico contemporaneo, implementando la rete economica dedita al design.
‘Addetto vendita arredo bagno piastrelle pavimenti’ recitava senza virgole il biglietto da visita che aveva fatto stampare una volta soltanto e poi basta. Non ce l’aveva più fatta a non pensare che cercare di abbellire un cesso fosse, in parte un lavoro di merda, in parte la storia della sua vita.
Inutile infierire ancora, sarebbe stato come sparare su un’ambulanza che ha appena bucato una gomma, o meglio, come cercare di difendersi dal temporale del secolo cercando di spalmarsi su un portone d’acciaio e farsi bastare 10 centimetri di gradino e 5, o forse zero, di tettoia.
Una specie di piccolo fiammiferaio goffo in mocassini, zuppo e triste, ad invidiare le case e le cose degli altri. Ecco come si sentiva in quel momento che di anni ne aveva quasi cinquanta e un curriculum di false partenze e mancati arrivi nemmeno fosse stato Achille, quello del paradosso, oppure la tartaruga, non ricordava bene.
Fu allora che ci ripensò: “Un bicchiere a metà può essere allo stesso tempo mezzo vuoto e mezzo pieno. E questo viene definito paradosso, vale a dire una cosa difficile da credere perché contraria all’opinione comune e che però è così e nessuno può dare un giudizio più vero dell’altro.”
Forse fu quel tuono improvviso più forte degli altri e niente fulmine come introduzione, forse l’ennesima goccia pesante entrata nel colletto da dietro senza bussare, o forse fu proprio tutta quella vita da comparsa senza battuta e quella vecchia lezione di filosofia che parlava di uguali, contrari, possibili.
Fu niente e fu tutto che gli fecero venire voglia di staccare la schiena da quel finto riparo e togliersi le scarpe, la giacca e tutti i vestiti che c’erano sotto.
Furono le mancanze sul podio a urlargli, a gran voce, da dentro, che la sua era una vita piena. Magari di vuoti, ma piena.
Tutte le volte che aveva ascoltato la musica da solo e a tutto volume, lui era stato felice.
Quando suo nonno gli aveva regalato una medaglia al valore, staccata dall’uniforme, perché aveva salvato una rondine, lui era stato felice.
Ogni volta che pioverà e si concederà le lacrime senza vergogna, lui sarà sempre, anche, felice.
Perché è da vigliacchi pensare soltanto che siano tutti gli altri e non te, senza capire come sia vero, lo stesso, dire che sia solo tu e gli altri, per niente.
E così furono centinaia di macchine calde e finestre protette a vedere un uomo nudo correre sotto la pioggia, con il sorriso di chi non gareggia ma sta solo viaggiando, leggero leggero sotto il cielo pesante, e migliaia di occhi invidiare quell’essere umano così uguale a loro ma così diverso.
Nessuno capì che stava anche piangendo, per aver perso tutto quel tempo a decidere che nel tuo bicchiere non sono le gocce a contare, ma quant’è grande la sete con cui ti fermi a guardarlo.