Teneva i piedi vicini e con le punte rivolte all’indentro, come un bambino timido al centro di una festa piena di gente. Invece non c’era nessuno. L’acqua cadeva a secchiate stracolme, col peso specifico di tonnellate di piombo e sembravano i cori senza parole ma pieni di rabbia e rumore che sentiva ogni volta allo stadio.

Non un volto, una gamba, un braccio, un piede bagnato. Soltanto un mantello di milioni di spilli che inondava, letteralmente, tutti i pensieri che venivano a galla.
Macchine calde e protette alzavano schizzi ai bordi del marciapiede, tutt’intorno finestre sbarrate ma piene di luce al sapore di cioccolata bollente, densa e preclusa.
Il mondo sembrava sempre molto più esperto a gestire i problemi di lui, che invece sognava arcobaleni mentali, mentre sfondava con i pugni stretti le tasche, per trovare il caldo, il sereno, la pentola proprietà del folletto.
Il mondo invece sembrava averci sempre un impermeabile, nelle tasche. Un infallibile piano B per quando le cose cominciavano a fare acqua da tutte le parti.
Maledetti voi che avete il culo asciutto e parato, pensava, ma come fate a fiutare tormenta e trovare riparo? Mentre a me tocca solo questo scalino stretto e lontano da casa.
Aveva sempre odiato la pioggia, da quando sua madre lo mandava all’asilo con ai piedi le buste di plastica di un supermercato poi andato fallito, invece degli stivali di gomma che avevano su disegnati i personaggi dei cartoni animati e che ti davano una scusa rotonda e perfetta per amare tutte quelle pozzanghere. Invece degli stivali che avevano tutti. Tutti gli altri tranne che lui.
Era questo il pensiero che lo avrebbe fatto affogare anche in un deserto di sabbia: l’essere impreparato lo rincorreva come un ascendente sbagliato fa con i figli nati sotto una stella cattiva.
L’unico scemo senza la maschera nelle foto di classe fatte a carnevale, il bambino con la tuta spaiata e la felpa dell’Ape Maya. Eredità di sua cugina maggiore che un po’ si vestiva da maschio e quindi, alla fine, era uguale.
A dodici anni in panchina a calcetto, a quindici l’apparecchio fisso e il primo bacio verso i 21 al Camping Rubicone di Savignano a Mare, con una tedesca grassa di cui non ricordava il nome. Ma non dimenticava il rumore del traffico sudato sull’Adriatica.
Poi la chimera di una laurea “spendibile”, come l’aveva chiamata allora per giustificare il suo sogno mediocre e pratico, preso da cassetti spalancati, di partecipare attivamente al benessere domestico contemporaneo, implementando la rete economica dedita al design.
‘Addetto vendita arredo bagno piastrelle pavimenti’ recitava senza virgole il biglietto da visita che aveva fatto stampare una volta soltanto e poi basta. Non ce l’aveva più fatta a non pensare che cercare di abbellire un cesso fosse, in parte un lavoro di merda, in parte la storia della sua vita.
Inutile infierire ancora, sarebbe stato come sparare su un’ambulanza che ha appena bucato una gomma, o meglio, come cercare di difendersi dal temporale del secolo cercando di spalmarsi su un portone d’acciaio e farsi bastare 10 centimetri di gradino e 5, o forse zero, di tettoia.
Una specie di piccolo fiammiferaio goffo in mocassini, zuppo e triste, ad invidiare le case e le cose degli altri. Ecco come si sentiva in quel momento che di anni ne aveva quasi cinquanta e un curriculum di false partenze e mancati arrivi nemmeno fosse stato Achille, quello del paradosso, oppure la tartaruga, non ricordava bene.
Fu allora che ci ripensò: “Un bicchiere a metà può essere allo stesso tempo mezzo vuoto e mezzo pieno. E questo viene definito paradosso, vale a dire una cosa difficile da credere perché contraria all’opinione comune e che però è così e nessuno può dare un giudizio più vero dell’altro.”
Forse fu quel tuono improvviso più forte degli altri e niente fulmine come introduzione, forse l’ennesima goccia pesante entrata nel colletto da dietro senza bussare, o forse fu proprio tutta quella vita da comparsa senza battuta e quella vecchia lezione di filosofia che parlava di uguali, contrari, possibili.
Fu niente e fu tutto che gli fecero venire voglia di staccare la schiena da quel finto riparo e togliersi le scarpe, la giacca e tutti i vestiti che c’erano sotto.
Furono le mancanze sul podio a urlargli, a gran voce, da dentro, che la sua era una vita piena. Magari di vuoti, ma piena.
Tutte le volte che aveva ascoltato la musica da solo e a tutto volume, lui era stato felice.
Quando suo nonno gli aveva regalato una medaglia al valore, staccata dall’uniforme, perché aveva salvato una rondine, lui era stato felice.
Ogni volta che pioverà e si concederà le lacrime senza vergogna, lui sarà sempre, anche, felice.
Perché è da vigliacchi pensare soltanto che siano tutti gli altri e non te, senza capire come sia vero, lo stesso, dire che sia solo tu e gli altri, per niente.
E così furono centinaia di macchine calde e finestre protette a vedere un uomo nudo correre sotto la pioggia, con il sorriso di chi non gareggia ma sta solo viaggiando, leggero leggero sotto il cielo pesante, e migliaia di occhi invidiare quell’essere umano così uguale a loro ma così diverso.
Nessuno capì che stava anche piangendo, per aver perso tutto quel tempo a decidere che nel tuo bicchiere non sono le gocce a contare, ma quant’è grande la sete con cui ti fermi a guardarlo.

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