Cara Olimpia,
Io sono una di quelle che ha avuto una vita generosa e non si è mai trovata ad affrontare disgrazie degne di un post traumatico. Però ho voglia di ammorbarti, perché anche se ci siamo parlate per poco qualcosa di te mi ha messa a mio agio.
La mia storia più importante l’ho avuta a 18 anni ed è durata 4 anni. È stata una storia bellissima, la prima in cui mi sono sentita veramente amata e a cui ho dato non tutta me stessa… Di più. Quando è finita è stato un trauma non solo per il distacco – che come tutti quelli che hanno amato e perso sanno, è un po’ come un lutto – ma perché ho dovuto guardarmi allo specchio e ammettere a me stessa che il modo in cui vedevo le cose, lui, me e il nostro rapporto, era molto distaccato dalla realtà. Ah, l’amore! Nulla soddisfa di più l’ego di chi è libero di amare l’oggetto del suo amore…
Voglio raccontarti un episodio che per me è stato significativo, che ha cambiato il corso della mia storia con lui e che può ben riassumere il tipo di rapporto che avevamo davvero, quello che da fuori non vedeva nessuno.
Avevo preso i biglietti per un viaggio, con un anno di anticipo usando tutti i miei risparmi, e organizzato una caccia al tesoro per tutta Roma per farglieli trovare per il suo compleanno. La sera ci ubriachiamo, ovviamente. Io ho sempre avuto il senso della misura, lui no. Per riportarlo a casa – totale di 20 minuti a piedi e 4 fermate di metro – ci metto circa 3 ore. Arriviamo in camera, lui sta fuori, ma diceva quanto mi amava, quanto era arrapato, ed io lo accontento non so neanche come o perché. Del dopo ho solo un flash. Gli sto facendo un pompino, ma c’è qualcosa che non va, inizio a piangere, ma non mi fermo. Le sue mani mi tenevano i capelli e spingevano con forza la mia testa. Cosi, fino alla fine, con me che piango. Finisce. Io mi tiro su, tutta sporca e singhiozzante, mi pulisco la faccia e mi giro verso di lui, addormentato in una frazione di secondo.
Mi siedo li sul cornicione della finestra, fumo e piango, per ore, non riuscendo a realizzare cosa fosse successo. Non so quando, lui si è svegliato, mi ha chiesto perché piangevo, e non so cosa gli ho detto. Ricordo solo che dopo lo abbracciavo mortificata e gli dicevo ”Non ti preoccupare, non fa niente”.
2015, sono in camera con il mio nuovo ragazzo, che è anche un mio collega, che è anche un santo. Ho iniziato a frequentarlo poco dopo aver chiuso la storia con il mio ex – e qui serve un’altra e-mail per spiegarti cosa è accaduto. Be’, diciamo che era il tipo di persona che quando mi ha trovato, depressa, schifosa e sul fondo del fondo del fondo, non si è tirato indietro, non mi ha voltato le spalle dicendo che ero una stronza, matta, o un’ipersensibile. Anzi, mi ha detto che mi avrebbe aspettato. Ha fatto i turni con quei due amici che mi erano rimasti accanto per aiutarmi a pulire, a fare da mangiare, portare giù i cani, studiare. Lui c’è stato, anzi lui è quello che mi ha insegnato cosa vuol dire esserci, davvero, per una persona.
Tutta la merda cominciava ad avere senso, anche se mi ci sono voluti 6 mesi di psicoterapia solo per rispolverarla un po’ e capire che effettivamente c’era. Tutto aveva senso: il mio non riuscire più a bere e i miei problemi quando il mio ex e i suoi (ma allora miei) amici bevevano, i miei problemi nell’intimità, la mia necessità di partire, mollare tutto a costo di soffrire la solitudine, perché la solitudine era meglio di quello che avevo, del mio sentirmi sempre strana e fuori luogo perché non bevo, perché non amo i luoghi affollati, perché non faccio sesso come un film porno e perché non squirto per dimostrare a quello che era il mio ragazzo quanto è bravo a farmi godere. Insomma, una disadattata che doveva guarire, che doveva cambiare.
Invece fanculo, io ero questo. Io ero quella che non ti avrebbe mai detto di no per non vedere un’espressione triste sul tuo viso, quella che preferiva farsi fare del male, per poi sorriderti e dirti di non preoccuparti, pur di non veder andare via qualcuno che amava e che per la prima volta mi aveva fatto sentire che valevo qualcosa. Io ero questo al punto da dimenticarmene per quasi 4 anni, tanto non volevo vedere la realtà. Tanto ero insicura da lasciare che la mia mente si auto proteggesse, rimuovendo le cose, senza neanche degnarsi di avvertirmi.
Questo è solo un aneddoto, che lascia il tempo che trova e che a ripensarci adesso non è poi così sconvolgente come quando lo ho vissuto. Eppure è indicativo, credo, di un modo di essere. Che era il mio modo di essere, ma che so appartenere a tante altre persone.
Per cambiare, ho prima di tutto dovuto capire che fosse giusto cambiare, che nonostante il dolore che si prova a lasciar indietro una parte di sé… la crescita implica proprio questo: cambiare. Anche se poi la gente se ne va perché un improvviso amor proprio da una così viene di rado capito, anzi, poi diventi pure na stronza egoista che osa dire quello che pensa e onorare i suoi sentimenti, figuriamoci chiedere che vengano rispettati.
Ora sono una persona nuova, o meglio, sono me stessa sempre. E devo fare un elogio alla psicoterapia per questo. Perché se cambi tu, cambia il tuo ambiente e tutto ciò che ti circonda.
Ora sono serena e ho capito il valore di quella frase così banale, eppure così vera: prima di tutti, ama te stesso.
F.
Cara F.
Benvenuta in quella parte di mondo abitata da persone che amano gli altri come dovrebbero amare se stessi o come di solito le madri amano i loro figli. Senza chiedere risposte, aspettando, perdonando, asciugandosi le lacrime anche quando vorrebbero piangere un Mississippi di dolore.
Quando mi capita di sentire storie che vanno al di là del sopportabile mi ricordo sempre i due stessi aneddoti, che forse anche loro lasciano il tempo che trovano. Il primo è una frase di una vecchia amica, con la quale mi lagnavo di essere figlia unica e dovermi occupare di mille sbattimenti e preoccupazioni senza poter dividere la responsabilità con nessuno. Lei mi risponde “Olimpia, se sei figlia unica vuole dire che è successo solo perché sei in grado di reggere tutto da sola” e mi mette il cuore in pace nonostante la tautologia. Il secondo riguarda una professoressa che durante lo scambio culturale con Parigi, mandò tutti in famiglie che abitavano in centro. A me invece mi spedì in aperta campagna, a due ore e mezzo di treno dalla città, in the middle of the mucche e dei salici piangenti. Dopo un paio di anni, quando glielo chiesi, mi disse che l’aveva fatto perché ero talmente abituata a viaggiare che di sicuro sarei stata l’unica a tollerare quella fatica. Sta stronza.
Volevo dirti una cosa ma non voglio che suoni come se stessimo in qualche terribile talk show dove tu hai il viso oscurato e io un’improbabile piega cotonata. Però grazie per averci avuto tanto coraggio a raccontare quello che ti è successo e come è successo. Su questo non ti dirò niente perché penso che non serva nemmeno. Non ci sarebbe diapositiva più chiara per dire come ci si sente quando si abbassa la testa tutte le volte che non si dovrebbe.
Secondo me la cosa che fa più male tra tutte è quella che nessuno ci riconosca lo sforzo. Di fare quello che non vogliamo, di non dire quello che pensiamo, di trascinarci i pesi ubriachi per ore e per anni anche se pesiamo meno della metà. Dico proprio nessuno che ci dica oh comunque brava, apprezzo il tentativo, l’importante è partecipare. Niente, nemmeno un portachiavi ricordo per la presenza.
Nessuno ci ringrazia e per nessuno intendo ovviamente nemmeno noi. Noi cominciamo a starci sul cazzo da soli per permetterci certe cose e magari a pensare che siamo brutte persone e che non ci meritiamo niente di più di quello che abbiamo. Quindi finisce che chiediamo anche scusa, a noi stessi, agli altri, a mamma e papà per non essere coraggiosi e per non alzare la testa. E forse è lì che si inceppano i circuiti e andiamo avanti per anni senza nemmeno capire chi sia il colpevole e chi la vittima. Ma rimaniamo colpevoli di non capire che se non ce ne accorgiamo da soli di essere vittime non è detto che arriverà mai qualcun altro a salvarci. C’è qualcosa dentro di me che mi dice che la vita sarà più generosa con te finché glielo permetterai e che non ti capiti mai più di metterti tu da sola in situazioni invece più che degne in un post traumatichino eh.
Ci sono modi eroici per morire e modi molto più eroici per vivere e per entrambe le cose bisogna trovare prima un significato, uno qualunque. Vanno bene tutti tranne quello del sacrificio. Non ce l’ha fatta quel signore barbuto in mutandoni di cui parlano tutti e non vedo perché dovrebbe essere compito nostro. Saremo pure cresciuti in una cultura in cui questa cosa ad un certo punto viene apprezzata ma alcune spinte evolutive dipendono anche da tutti i nostri piccoli gesti. Non può essere la vittoria magari ultraterrena, di chi ha sofferto di più. Bisognerebbe dedicarsi alla felicità con un po’ meno vergogna.
Quello che ti è capitato dopo e chi mi auguro ti capiti per tutto il resto della tua vita non è nient’altro che quello che tu hai fatto prima per qualcun altro e quindi forse è soltanto la cosa più giusta che poteva succederti. Ecco, qui però stai attenta, esserci per l’altro è la prima cosa e non deve essere l’eccezione o il miracolo. Ci si vuole bene quindi ci si protegge, tutto il resto è una guerra e di queste ne è già pieno tutto il resto del mondo.
A proposito di talk shows del cavolo dove si parlava di uomini che amano troppo e quindi te menano, non me la sento di dire quello che penso ma sono sicura che esistano uomini ed esistano donne che da soli non si amano proprio. Forse nemmeno si conoscono o non si fidano di loro se stessi, non lo so. Ma se non ci vogliamo bene da soli è più facile che ci convincano a rimanere in una relazione mediocre o comunque lontana dai nostri sogni, perché a un certo punto smettiamo proprio di farli.
Quando la psicoterapia funziona è soltanto perché ci siamo rotti le palle che le cose vadano in un certo modo e sì, come hai detto benissimo tu, siamo disposti a cambiare e quindi a ricominciare a conoscerci dall’inizio ma anche a correre il rischio di essere più felici di come eravamo. Adesso che ti sei diventata più amica di come eri prima ricordati sempre che devi viaggiare leggera e piangere solo davanti a chi ti consola e chi ti riporterebbe a casa anche dopo esserti scolata l’acqua di tutti i tergicristalli di Roma senza nessuna paura.
E non portare mai sulle tue spalle più di quello che riesci a sopportare perché non sei su questo mondo per caricartelo addosso ma casomai per ballarci dentro.
Olimpia