Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

There is a light that never goes out

Spesso ci invitano a ragionare su chi siamo veramente. Veramente, che parola ingombrante, eh? Come se non si potesse più tornare indietro una volta che dalla rosa degli aggettivi ne abbiamo scelti cinque. Sono momenti come questi, con le serrande abbassate per tenere fuori il caldo, il ventilatore dritto sulla cervicale e la smania di vivere che mi ronza intorno come le zanzare, che mi sento vicino a Socrate. O vabbè insomma al Socrate letterario che si pronuncia con quella sua ignoranza irritante sulla verità, dicendo una cosa che se non fosse stata resa elegante, sarebbe stata “Ma non mi rompete il cazzo dai, ma che ne so, piuttosto che vivere in un mondo di prepotenze sulla verità, io dico la mia e poi me ne vado a salutare gli antenati con un bel frullato vegano alla cicuta.”

La verità è un concetto irritante un po’ come la fede quando non porta ragioni ma pretese. La verità su qualunque cosa intendo, su noi stessi, sulla felicità, sulle relazioni, su come tutto questo si intrecci per alcuni, per altri no, per altri esiste solo la montagna, la Roma, il marito, il giardinaggio, i frullati. Ognuno sembra doversi fare carico di portare un fuoco più sacro degli altri, col quale illuminare di significato ogni momento. Ogni singolo istante deve avere significato se no non è vero che stai vivendo, però esiste anche la fazione del lasciare scorrere tutto come se fossimo nutrie nel fiume che nuotano a dorso, o la fazione dei moderati, per carità, solo che anche loro poi finiscono per essere fideistici con questa cosa del giusto equilibrio tra le parti.

Come se io con il mio pc hp del 2001 che fa il ronzio di un elicottero, fossi meno irritante e presuntuosa, qui cercando di uscire in quattro righe da millenni di lotte all’ultima parola sul concetto di verità. Il punto forse è questo, che siamo tutti colpevoli. Colpevoli di non saper sopportare il vuoto, la mancanza di senso e le domande. O magari a parole siamo i migliori della classe, ma poi ci facciamo i piantini sotto la doccia e allora vaffanculo.

Tutti, ma tutti tutti, pure tu sicuramente, passi la vita a cercare il significato della vita e delle azioni, spostandoti da una certezza a un’altra, da una verità parziale ad un’altra proprio come vuole il metodo scientifico, da un amore ad un altro, cambiando taglio di capelli, casa, amici, quadri alle pareti, fiori nei vasi. E ogni volta che ti sembra di averci capito qualcosa di quella verità, ti appassioni, rompi i coglioni agli altri su quanto è bella la tua verità. Poi quella verità si rompe e come si fa di solito, momento dopo momento, passi alla prossima. Anche la verità del dolore può essere una scoperta, quella dei disturbi alimentari anche, del panico, della paranoia, insomma di tutto quello che vi capita di pensare, non per forza felice, solo dai confini netti. Vorrei sapere chi, almeno un giorno della sua vita, non si è alzato dal letto urlando all’universo “ditemi solo che devo fare, come lo devo fare e io lo faccio basta che ve state tutti calmi“.

Per questo ci affezioniamo alla routine e volte ci affoghiamo pure dentro, per amore di verità, per paura del non sapere. Siamo colpevoli anche di questo? No ma va, però ne siamo responsabili. In qualche modo siamo “veramente” costretti a trovare dei punti di appiglio per quando si fa tutto buio. Almeno su questo mi sembra di essere serena nello schierarmi, cioè che tanto vale lasciare che si faccia ogni tanto tutto buio , piuttosto che ostinarci a darci fuoco da soli pur di fare luce. Da quella ostinazione viene la rabbia per il mondo e una miriade di cose psicosomatiche che in un mondo già difficile, potremmo pure risparmiarci e farci un pianto in più. Capisco che anche la gastrite possa tenere compagnia, ma ricordatevi come si addormentano in pace i bambini dopo che si sono disperati (spesso senza motivo ma intensamente) e date al piantino una seconda chance.

Sì vabbè, ma oltre a sto piantino, quando mi pare che si fa tutto quanto buio, io che cosa devo fare? Perché insomma anche queste sono solo parole buttate lì, niente di nuovo.

Già.

Come mi ha detto una ragazza in studio, riportandomi un libro sulle emozioni che le avevo prestato: “Ma qui non c’è niente, non dice se io sono triste come devo fare a non essere triste.”

Già.

Diffida da chi te lo dice come si fa, Socrate l’avrebbe messa così.

Forse, forse eh, ognuno ha il suo sgabuzzino buio brutto con dentro i fantasmi, i ragni, le scatole con i ricordi chiuse a tripla mandata. Forse in ognuno c’è una lampadina, piccola, di quelle che pendono, arrugginite, che fanno pure contatto. Forse per ognuno è fatta di parti che abbiamo da quando siamo molto piccoli, fatta di cose piccole e inutili per qualcun altro. C’è chi si ricorda dell’esistenza delle coccinelle, chi sistema l’armadio o sposta i mobili, chi effettivamente (beati voi) riesce a perdersi in un libro proprio quando serve, chi va a correre, chi si chiude in camera con la musica non importa se l’adolescenza è finita da 50 anni. Ognuno di noi, forse, dovrebbe ricordarsi di almeno due o tre cose che se fare completamente da solo e che lo illuminano come un fiammifero nella bufera ma lo illuminano quel secondo, e si sente. I più in gamba per me sono quelli che suonano uno strumento o dipingono o sanno usare programmi pazzeschi con cui fare cose, come lo sono gli artigiani, tutti. Però credo che poi uno a se stesso si abitua, per cui inutile dire così, le verità degli altri sono abbaglianti più per noi che per gli altri.

Senza accorgermene ho provato a fare come si fa di solito, a essere per forza costruttiva per gli altri, e invece no, fanno quaranta gradi, ho dovuto spegnere il ventilatore perché fa casino e il nervosismo mi è salito di vari gradi. Preferisco farmi un giretto alle poste e litigare con qualcuno, che risultare troppo cinica o troppo confortante. Mi piace essere confortante perché è come faccio con me per non vivere sempre male, però penso sia più saggio riconsegnare la riflessione a chi la vuole e che ognuno controlli la lampadina se per caso si trova nello sgabuzzino e vede tutto buio.

Direi che nessuno si salva del tutto da solo, che nessuno si salva solo attraverso gli altri, che i modi di salvarsi sono tanti, che ci pensiamo così tanto spesso, che spesso non ci ricordiamo nemmeno più da che cazzo stiamo provando a salvarci. Credo dalla solitudine e credo che quella lampadina sia importante.

La mia si è accesa in alcune occasioni diverse, non chissà quante, le potrei contare. L’ultima su un volo di ritorno da un viaggio andato male, per fortuna lato finestrino così l’assolo di piantino non ha trovato imbarazzi. Atterraggio da incubo rumorosissimo, gente che si attacca ai braccioli, una signora che inizia con omiodioooo, qualcuno incazzato, un paio di turisti tedeschi chissà cosa dicono, io mi risveglio dal torpore e dentro penso solo “eccolo er duro scontro co’ la realtà” e mi viene da ridere, e rido da sola. Mi sono riconosciuta qualcosa che non ha bisogno di nessuno, di farmi ridere da sola se proprio serve, di tenermi compagnia se proprio serve. E volte serve. E per un attimo c’è la luce e mi faccio tenerezza, e per un attimo passa tutto, tranne quella lucetta che non passa mai.

La posta di Olimpia-Ho fumato troppe sigarette piangendo nel buio

Cara Olimpia,

Io sono una di quelle che ha avuto una vita generosa e non si è mai trovata ad affrontare disgrazie degne di un post traumatico. Però ho voglia di ammorbarti, perché anche se ci siamo parlate per poco qualcosa di te mi ha messa a mio agio. 

La mia storia più importante l’ho avuta a 18 anni ed è durata 4 anni. È stata una storia bellissima, la prima in cui mi sono sentita veramente amata e a cui ho dato non tutta me stessa… Di più. Quando è finita è stato un trauma non solo per il distacco – che come tutti quelli che hanno amato e perso sanno, è un po’ come un lutto – ma perché ho dovuto guardarmi allo specchio e ammettere a me stessa che il modo in cui vedevo le cose, lui, me e il nostro rapporto, era molto distaccato dalla realtà. Ah, l’amore! Nulla soddisfa di più l’ego di chi è libero di amare l’oggetto del suo amore…

Voglio raccontarti un episodio che per me è stato significativo, che ha cambiato il corso della mia storia con lui e che può ben riassumere il tipo di rapporto che avevamo davvero, quello che da fuori non vedeva nessuno

Avevo preso i biglietti per un viaggio, con un anno di anticipo usando tutti i miei risparmi, e organizzato una caccia al tesoro per tutta Roma per farglieli trovare per il suo compleanno. La sera ci ubriachiamo, ovviamente. Io ho sempre avuto il senso della misura, lui no. Per riportarlo a casa – totale di 20 minuti a piedi e 4 fermate di metro – ci metto circa 3 ore. Arriviamo in camera, lui sta fuori, ma diceva quanto mi amava, quanto era arrapato, ed io lo accontento non so neanche come o perché. Del dopo ho solo un flash. Gli sto facendo un pompino, ma c’è qualcosa che non va, inizio a piangere, ma non mi fermo. Le sue mani mi tenevano i capelli e spingevano con forza la mia testa. Cosi, fino alla fine, con me che piango. Finisce. Io mi tiro su, tutta sporca e singhiozzante, mi pulisco la faccia e mi giro verso di lui, addormentato in una frazione di secondo.

Mi siedo li sul cornicione della finestra, fumo e piango, per ore, non riuscendo a realizzare cosa fosse successo. Non so quando, lui si è svegliato, mi ha chiesto perché piangevo, e non so cosa gli ho detto. Ricordo solo che dopo lo abbracciavo mortificata e gli dicevo ”Non ti preoccupare, non fa niente”.

2015, sono in camera con il mio nuovo ragazzo, che è anche un mio collega, che è anche un santo. Ho iniziato a frequentarlo poco dopo aver chiuso la storia con il mio ex – e qui serve un’altra e-mail per spiegarti cosa è accaduto. Be’, diciamo che era il tipo di persona che quando mi ha trovato, depressa, schifosa e sul fondo del fondo del fondo, non si è tirato indietro, non mi ha voltato le spalle dicendo che ero una stronza, matta, o un’ipersensibile. Anzi, mi ha detto che mi avrebbe aspettato. Ha fatto i turni con quei due amici che mi erano rimasti accanto per aiutarmi a pulire, a fare da mangiare, portare giù i cani, studiare. Lui c’è stato, anzi lui è quello che mi ha insegnato cosa vuol dire esserci, davvero, per una persona.

Tutta la merda cominciava ad avere senso, anche se mi ci sono voluti 6 mesi di psicoterapia solo per rispolverarla un po’ e capire che effettivamente c’era. Tutto aveva senso: il mio non riuscire più a bere e i miei problemi quando il mio ex e i suoi (ma allora miei) amici bevevano, i miei problemi nell’intimità, la mia necessità di partire, mollare tutto a costo di soffrire la solitudine, perché la solitudine era meglio di quello che avevo, del mio sentirmi sempre strana e fuori luogo perché non bevo, perché non amo i luoghi affollati, perché non faccio sesso come un film porno e perché non squirto per dimostrare a quello che era il mio ragazzo quanto è bravo a farmi godere. Insomma, una disadattata che doveva guarire, che doveva cambiare.

Invece fanculo, io ero questo. Io ero quella che non ti avrebbe mai detto di no per non vedere un’espressione triste sul tuo viso, quella che preferiva farsi fare del male, per poi sorriderti e dirti di non preoccuparti, pur di non veder andare via qualcuno che amava e che per la prima volta mi aveva fatto sentire che valevo qualcosa. Io ero questo al punto da dimenticarmene per quasi 4 anni, tanto non volevo vedere la realtà. Tanto ero insicura da lasciare che la mia mente si auto proteggesse, rimuovendo le cose, senza neanche degnarsi di avvertirmi.

Questo è solo un aneddoto, che lascia il tempo che trova e che a ripensarci adesso non è poi così sconvolgente come quando lo ho vissuto. Eppure è indicativo, credo, di un modo di essere. Che era il mio modo di essere, ma che so appartenere a tante altre persone. 

Per cambiare, ho prima di tutto dovuto capire che fosse giusto cambiare, che nonostante il dolore che si prova a lasciar indietro una parte di sé… la crescita implica proprio questo: cambiare. Anche se poi la gente se ne va perché un improvviso amor proprio da una così viene di rado capito, anzi, poi diventi pure na stronza egoista che osa dire quello che pensa e onorare i suoi sentimenti, figuriamoci chiedere che vengano rispettati.

Ora sono una persona nuova, o meglio, sono me stessa sempre. E devo fare un elogio alla psicoterapia per questo. Perché se cambi tu, cambia il tuo ambiente e tutto ciò che ti circonda.

Ora sono serena e ho capito il valore di quella frase così banale, eppure così vera: prima di tutti, ama te stesso.

F.

 

Cara F.

Benvenuta in quella parte di mondo abitata da persone che amano gli altri come dovrebbero amare se stessi o come di solito le madri amano i loro figli. Senza chiedere risposte, aspettando, perdonando, asciugandosi le lacrime anche quando vorrebbero piangere un Mississippi di dolore.

Quando mi capita di sentire storie che vanno al di là del sopportabile mi ricordo sempre i due stessi aneddoti, che forse anche loro lasciano il tempo che trovano. Il primo è una frase di una vecchia amica, con la quale mi lagnavo di essere figlia unica e dovermi occupare di mille sbattimenti e preoccupazioni senza poter dividere la responsabilità con nessuno. Lei mi risponde “Olimpia, se sei figlia unica vuole dire che è successo solo perché sei in grado di reggere tutto da sola” e mi mette il cuore in pace nonostante la tautologia. Il secondo riguarda una professoressa che durante lo scambio culturale con Parigi, mandò tutti in famiglie che abitavano in centro. A me invece mi spedì in aperta campagna, a due ore e mezzo di treno dalla città, in the middle of the mucche e dei salici piangenti. Dopo un paio di anni, quando glielo chiesi, mi disse che l’aveva fatto perché ero talmente abituata a viaggiare che di sicuro sarei stata l’unica a tollerare quella fatica. Sta stronza.

Volevo dirti una cosa ma non voglio che suoni come se stessimo in qualche terribile talk show dove tu hai il viso oscurato e io un’improbabile piega cotonata. Però grazie per averci avuto tanto coraggio a raccontare quello che ti è successo e come è successo. Su questo non ti dirò niente perché penso che non serva nemmeno. Non ci sarebbe diapositiva più chiara per dire come ci si sente quando si abbassa la testa tutte le volte che non si dovrebbe.

Secondo me la cosa che fa più male tra tutte è quella che nessuno ci riconosca lo sforzo. Di fare quello che non vogliamo, di non dire quello che pensiamo, di trascinarci i pesi ubriachi per ore e per anni anche se pesiamo meno della metà. Dico proprio nessuno che ci dica oh comunque brava, apprezzo il tentativo, l’importante è partecipare. Niente, nemmeno un portachiavi ricordo per la presenza.

Nessuno ci ringrazia e per nessuno intendo ovviamente nemmeno noi. Noi cominciamo a starci sul cazzo da soli per permetterci certe cose e magari a pensare che siamo brutte persone e che non ci meritiamo niente di più di quello che abbiamo. Quindi finisce che chiediamo anche scusa, a noi stessi, agli altri, a mamma e papà per non essere coraggiosi e per non alzare la testa. E forse è lì che si inceppano i circuiti e andiamo avanti per anni senza nemmeno capire chi sia il colpevole e chi la vittima. Ma rimaniamo colpevoli di non capire che se non ce ne accorgiamo da soli di essere vittime non è detto che arriverà mai qualcun altro a salvarci. C’è qualcosa dentro di me che mi dice che la vita sarà più generosa con te finché glielo permetterai e che non ti capiti mai più di metterti tu da sola in situazioni invece più che degne in un post traumatichino eh.

Ci sono modi eroici per morire e modi molto più eroici per vivere e per entrambe le cose bisogna trovare prima un significato, uno qualunque. Vanno bene tutti tranne quello del sacrificio. Non ce l’ha fatta quel signore barbuto in mutandoni di cui parlano tutti e non vedo perché dovrebbe essere compito nostro. Saremo pure cresciuti in una cultura in cui questa cosa ad un certo punto viene apprezzata ma alcune spinte evolutive dipendono anche da tutti i nostri piccoli gesti. Non può essere la vittoria magari ultraterrena, di chi ha sofferto di più. Bisognerebbe dedicarsi alla felicità con un po’ meno vergogna.

Quello che ti è capitato dopo e chi mi auguro ti capiti per tutto il resto della tua vita non è nient’altro che quello che tu hai fatto prima per qualcun altro e quindi forse è soltanto la cosa più giusta che poteva succederti. Ecco, qui però stai attenta, esserci per l’altro è la prima cosa e non deve essere l’eccezione o il miracolo. Ci si vuole bene quindi ci si protegge, tutto il resto è una guerra e di queste ne è già pieno tutto il resto del mondo.

A proposito di talk shows del cavolo dove si parlava di uomini che amano troppo e quindi te menano, non me la sento di dire quello che penso ma sono sicura che esistano uomini ed esistano donne che da soli non si amano proprio. Forse nemmeno si conoscono o non si fidano di loro se stessi, non lo so. Ma se non ci vogliamo bene da soli è più facile che ci convincano a rimanere in una relazione mediocre o comunque lontana dai nostri sogni, perché a un certo punto smettiamo proprio di farli.

Quando la psicoterapia funziona è soltanto perché ci siamo rotti le palle che le cose vadano in un certo modo e sì, come hai detto benissimo tu, siamo disposti a cambiare e quindi a ricominciare a conoscerci dall’inizio ma anche a correre il rischio di essere più felici di come eravamo. Adesso che ti sei diventata più amica di come eri prima ricordati sempre che devi viaggiare leggera e piangere solo davanti a chi ti consola e chi ti riporterebbe a casa anche dopo esserti scolata l’acqua di tutti i tergicristalli di Roma senza nessuna paura.

E non portare mai sulle tue spalle più di quello che riesci a sopportare perché non sei su questo mondo per caricartelo addosso ma casomai per ballarci dentro.

Olimpia