Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

Sono ossessionata dall’amore

Cara Olimpia,

Ho 26 anni e mi sento in un vortice di emozioni. Mi sento su una giostra che non si ferma mai, oggi sono su e domani sono giù. Senza dei motivi realmente concreti. Alla ricerca di un po’ di sana serenità ho deciso di prendermi qualche giorno per stare con me stessa, farmi compagnia e prendermi cura di me. Quindi eccomi qua a scriverti sono sulla riviera ligure e penso ai miei ultimi mesi di vita…io sono un’infermiera, in questi ultimi tempi la mia vita è stata completamente ribaltata, il mio lavoro mi piace tantissimo, ma a volte sono così stanca che faccio fatica a stare sveglia quando torno a casa dal turno. Io non so in che modo, ma anche se sono così stanca la mia mente sembra così produttiva, è un flusso continuo…in particolare non riesco a togliermi dalla testa il desiderio di trovare l’amore, sta diventando quasi un’ossessione, sai? Io in realtà sono single da tanti anni e mai ho avuto questo desiderio così impellente e impaziente di essere realizzato…come posso fermare per un po’ il mio cervello che fa tutte queste richieste così difficili da realizzare? Visto che lo stesso cervello mi spinge ad uscire con diversi ragazzi ed a eliminarli automaticamente dopo pochissime uscite?

Grazie già per la tua dolcissima risposta spero di essere stata abbastanza chiara.

Un abbraccio

F.

Cara F.

Ti proverò a rispondere prendendo in considerazione la tua lettera da due diversi punti di vista. Uno che sta dalla parte della legittimità di questo tuo forte desiderio, l’altro che lo ritiene comunque legittimo ma che forse ci si nasconde un po’ dietro.

Non saprei davvero dirti da che parte pende di più la bilancia, ma diciamo permettimi di andare un po’ a occhio. Mi ha incuriosito come tu abbia nominato il tuo lavoro come fonte di grande amore e allo stesso tempo fonte di grande stress. In effetti fare quello che fai necessita di una grande vocazione e anche con i turni di riposo che sono concessi a tutti gli infermieri, non credo avanzi tempo realmente utile per trovare riposo. Mi verrebbe da chiederti in che modo è stata scombussolata così tanto la tua vita, se hai cambiato luogo in cui lavori, se hai preso insomma qualche grande decisione e, sempre a occhio, verrebbe da pensare di sì. Quindi penso ti trovi ancora in una fase di assestamento da momento A a momento B dell’esistenza e in quei momenti, come nelle vacanze, come a Natale, come (quasi) ogni maledetta domenica, lì dove c’è spazio, c’è spazio per pensare. A quello che abbiamo combinato con quello che siamo, a quello che siamo diventati, a quello che abbiamo perso, a quello che ci manca.

Se sei senza amore da tanto tempo, bontadidio, ci sta che tu ne abbia desiderio! Non conosco una sola persona sana di mente che dopo un po’ che se ne sta senza, non si chieda come si starebbe con. Sarebbe bello pensare di poterne fare a meno, per certi aspetti, per altri sarebbe terribile, quindi non sentirti ossessiva se nel silenzio della sera, quando il dovere è stato fatto e tutti tornano a casa da qualcuno, ti viene voglia di entrare e trovare un abbraccio. O qualsiasi sia la tua fantasia romantica che ti censuri da sola dicendo che è un’ossessione. Un desiderio grande di certo ci può assediare al punto da sembrare un’ossessione, ma è solo un desiderio grande. Se mi avessi detto che ti stai ossessionando con la compravendita di yatch ti direi beh, forse ma forse non è un giro di pensiero così produttivo. Se però parliamo di amore, lo avrai capito sono una romantica, come posso dirti come fare a smettere? Piuttosto preparati un bel rituale per concederti questi pensieri: musica jazz soft, del vino, un par de candele e una scatolina di kleenex già che ti trovi. Come lo vorresti questo prossimo, che qualità dovrebbe avere, che difetti non gli perdoneresti, com’è andata con l’ultimo in modo da non ripetere gli stessi errori ma casomai perfezionarli?

E poi ti chiederei anche di chiederti, ma questi qui con cui esci, hanno qualcosa di vagamente simile all’idea che ti sei fatta della persona che vorresti conoscere e che ti conosca? Perché magari proprio perché presa dalla fretta stai andando un po’, come diciamo a Oxford, a cazzo nelle scelte e poi ti trovi che non ne vuoi più sapere niente. Nel senso, se sto morendo di fame rischio di fare una spesa balorda al supermercato, quindi non vedo perché non dovrebbe applicarsi lo stesso criterio alle più alte sfere.

Poi c’è l’altro punto di vista, che mi richiama una cosa letta tempo fa, anche se non mi ricordo bene da quale autore ma puoi fidarti che l’ho letta da qualcuno che consideravo saggio altrimenti non me lo sarei mai ricordato fino a qui, e che comunque diceva una cosa tipo “Se non stessi pensando adesso all’ossessione amorosa, a cosa dovresti pensare?”

Ecco, tolto il romanticismo e tutto ciò che gli sta intorno, rimane questo strano potere della cotta e ancora di più della super cotta, cioè quello di portarci via da dove siamo, in un posto migliore in cui gli impegni con noi stessi possono aspettare o essere sostituiti da un bel contratto a tempo indeterminato con il cuore di qualcuno. Se lo avessi sentito anni fa mi sarei sicuramente incazzata a morte, mi sarebbe sembrato un parere cinico e freddo, invece devo dire che con il senno del poi, quello delle rughe, quello degli errori, posso affermare che in effetti succede. Succede che l’amore ci porti via da noi, via dai sogni che avevamo e via dalle cose che non riusciamo a fare.

Tempo fa una ragazza mi disse preoccupata che la notte non sapeva come fare perché da quando aveva memoria si addormentava solo pensando a qualcuno per cui aveva qualche cottarella. Lì per lì mi è sembrato un sentimento come di bambini, ma in tutta verità io non mi sento così diversa. Se non penso a qualcuno, nel vuoto della mia stanza, nel vuoto della mia vita, mi tocca pensare a me. A qui fantasmi che mi bussano da tutte le parti, che mi dicono che devo fare di più, devo fare meglio, devo devo devo. Ignorarli? Non fino in fondo perché mi dicono delle cose che hanno senso, non sono solo severi, sono anche giusti. Ogni volta che mi sono innamorata ho buttato un pezzo di me per cercare di riappiccicare il pezzo di qualcun altro e poi mi sono ritrovata con tantissimi piccoli pezzi dappertutto, dentro e fuori. Cosa porta l’amore, ma cosa toglie. Cosa toglie sembra brutto da dire ma forse lo si deve dire. Toglie qualcosa, toglie certe angosce o forse le ricopre solo, forse le mette in freezer ma non le uccide.

Questi sono i miei due istintivi punti di osservazione sulla tua questione e per questo ti invito da una parte a concederti senza vergogna quei momenti al ritorno del lavoro, come se fossi una ricercatrice che sta studiando qualcosa, non come una scappata dalle telenovelas. Dall’altra parte ti invito a chiederti, con coraggio e con paura, se c’è qualcosa che vorresti o dovresti fare, di molto importante, da cui questo pensiero sognante ti protegge tenendoti lontana.

I 26 anni sono bellissimi, cominciano a essere giusti per crescere e non sono troppo pochi per non sentirsi cresciuti. Non fare mai a meno del desiderio d’amore, non fare mai a meno di guardarti dentro regolarmente per vedere come sta quella persona speciale che abita insieme a te tutto il tempo.

Un abbraccio,

Olimpia

La posta di Olimpia

Salve, rispondo subito all’invito a scrivere fatto dalla sua pagina. Sono una donna separata da quattro anni. Ho due figli grandi, entrambi all’estero per lavoro, dunque sono sola. Nella mia vita mi sono dedicata anima cuore e corpo prima alla mia famiglia di origine, poi al mio ex marito ed ai miei figli. Senza tirarla per le lunghe, ho dimenticato la persona più importante: me stessa. Sono vissuta in un mare di sensi di colpa sentendomi sempre sbagliata ed inadeguata. Insultata dal mio ex marito, con il quale peraltro lavoro, ho deciso di mettere fine alla relazione. Ho sofferto per questo, tantissimo. Perché ho pensato al fallimento e mi sono data la colpa di tutto. Ora, dopo tanto lavoro su me stessa, ho trovato un equilibrio, ma combatto ancora con la mia  solitudine. Ho cercato di conoscere altri uomini, ma disgraziatamente mi capitano tutti della stessa tipologia, e questo non lo capisco. Vede io sono una persona molto ingenua, non amo i giochetti, non mi nascondo, racconto tutto, anche la mia malinconia quando c’è. E basta una piccola attenzione da parte di un uomo per farmi cadere in trappola. Uomini che, dopo un po’, spariscono misteriosamente. Ora mi dirà, succede a tante…e sono d’accordo. Però, come si dice, ognuno di noi ha il suo dolore che non è mai inferiore a quello degli altri. Non credo troverò o crederò più ad uomo, l’ultimo l’ho mandato a quel paese pochi giorni fa, e non ho capito se lui lo sa. Perché, mi chiedo, la gente è così egoisticamente concentrata solo su se stessa e non pensa mai al dolore che può provocare agli altri? Mi scuso se ho fatto un po’ di confusione, ma in questi giorni sono abbastanza avvilita e forse il mio è uno sfogo inutile e senza senso. Quello che vorrei dire è che non è semplice ricostruire la propria vita dopo i fallimenti, almeno per me è così. Grazie mille. M.

Cara M. grazie per avermi scritto. Ricostruire la propria vita dopo un fallimento è come svegliarsi una mattina e scoprire che durante la notte c’è stato un colpo di stato e noi siamo il paese da riformare. Si tratta di uno degli eventi a cui la vita ci sottopone, più catastrofici e più edificanti. Non nello stesso esatto momento ma rimango convinta del grande potere rivoluzionario delle disfatte amorose. Le posso assicurare che non è lei ad essere fragile, è l’amore che è fragile. Più lungo è il nostro viaggio, meno ci è chiara la direzione, più pesante sarà lo zaino con cui ci relazioniamo con le nostre nuove conoscenze. In quel suo “raccontare tutto” ci vedo insieme un grande dono e un arma che può rivelarsi molto tagliente, perché così come noi abbiamo il nostro carico di partenze a vuoto e scivolate dalle cime, anche gli altri camminano per il mondo con il loro zaino ed è difficile, se non forse anche un po’ arrogante, pensare di ricominciare sempre tutto daccapo con la stessa purezza e la stessa energia che avevamo tre o quattro frequentazioni fa, o peggio (o meglio) ancora, qualche amore fa.

Essendo io una donna e sentendomi in empatia in qualità di essere umano più che di professionista, tenderei a convenire con lei sul fatto che gli uomini siano spesso dei mascalzoni (questa parola l’ho scelta con cura pensando a come li avrebbe apostrofati mia nonna) e magari invitarla a letture edificanti come Donne che amano troppo o Donne che corrono coi lupi, entrambe non da buttare per carità, ma entrambi deresponsabilizzanti di alcuni aspetti cardine necessari ad avere una visione realmente edificante del disastro che siamo capaci di ritrovarci intorno. Potrei anche dirle che certo, esiste una reale differenza biologica, sociale e psicologica tra l’essere umano donna e l’essere umano uomo. Siamo infatti tutti provvisti del cervello rettiliano (sì, perché in comune con i rettili, proprio quelli) deputato alla gestione di affari importanti ed animaleschi come la territorialità, la conquista, le reazioni di attacco e fuga, la competitività e altri mostri umani sebbene striscianti. Questo magari le potrebbe servire per accettare il fatto che tutti possediamo un nucleo ingovernabile che mira solo a non divenire preda e non soffrire. Con questo nucleo intenso e primordiale non permettiamo a nessuno di essere realmente più importante di noi o, se lo facciamo, ne paghiamo un costo. Come nel suo caso, in cui come mi racconta, si è sempre data da fare solo ed esclusivamente per gli altri e non è stata ripagata con la stessa moneta. Lo ha fatto, ci è riuscita, è stata senz’altro molto coraggiosa, però appunto ha dimenticato se stessa. Forse le sta capitando quello che capita a molte, forse a tutte, le persone quando si entra nel terreno sdrucciolevole delle cose dell’amore. Sta ripetendo un copione relazionale nel quale per motivi che non posso conoscere da qui, si sentirà da una parte sicuramente molto in difficoltà e frustrata, ma dall’altro è probabile che una parte di lei la spinga verso questa ripetizione per un motivo terribilmente semplice. Perché le è familiare. Già, siamo strani animali, per i quali il cambiamento è sempre auspicabile e temuto. Nel cambiare copione relazionale infatti siamo costretti a sacrificare qualche cosa, a leggere gli eventi passati sotto una luce diversa, e vedere ciò che siamo e facciamo sotto una luce diversa.

Solo attraverso questo compito amaro è realmente pensabile costruire delle modalità di selezione e reazione diverse da quelle che in passato non hanno funzionato e permetterci di essere felici in due. Glielo chiedo sperando di non risultare indelicata, ma è possibile, cara M., che in tutti questi anni lei si sia incastrata in un ruolo che le sta stretto ma che non riesce a cambiare? Sarebbe possibile anche pensare che finché cederemo alla dolce (e rabbiosa) tentazione di dare tutta la colpa alternativamente a noi stessi oppure al mascalzone di turno, rischiamo di finire condannati da noi stessi ad una sorta di auto compiacimento doloroso e cinico sulla non possibilità di redenzione o anche solo di miglioramento del benessere percepito quando decidiamo di dedicare il nostro cuore a qualcuno? Glielo chiedo e me lo chiedo, anche se me lo chiedo spesso, ma non è mai abbastanza.

Sarebbe possibile che io oggi qui dal mio pc sulla scrivania la inviti a provare a ridefinire il concetto di colpa secondo i termini di responsabilità? Come se dovesse essere madre severa ma giusta della sua parte bambina in cerca di un luogo sicuro in cui abbandonarsi ed essere se stessa e provare a individuare quali sono i nodi che sistematicamente le capita di affrontare. Come le capita di sentirsi e sopratutto qual è questa tipologia di uomini che poi la abbandonano. La invito a questa riflessione che avrà sicuramente fatto lei stessa innumerevoli volte, ma il punto di osservazione attraverso cui osserviamo gli eventi è più importante degli eventi stessi.

Forse ognuno di noi prova a riscrivere sempre la stessa storia che forse è iniziata nei rapporti che abbiamo avuto con i nostri genitori, che forse ci hanno condizionato, insieme a tante altre variabili, nella direzione dei nostri spostamenti, spingendoci a lottare per un finale felice di una favole che finisce sempre in modo triste. Forse se davvero pensa di non riuscire a uscire da questa che sembra a tutti gli effetti una trappola, può prendere in considerazione di raccontare la sua storia a qualcuno che faccia il mio mestiere e che le possa fornire una visione esterna di alcuni angoli che al nostro sguardo interiore rimangono sempre e per forza in ombra. Non si tratta di essere incompetenti con se stessi, piuttosto di arrendersi all’evidenza che l’amore è una forza troppo trasversale e troppo umana per sprecare le nostre energie vitali a cercare di combatterla o di farne a meno. Se c’è un invito che le posso fare, per quello che possa contare, è quello di non farsi trascinare dal cinismo ma di provare ad assumere una posizione più scettica nel momento dell’incontro. Con questo lungi da me la promozione della freddezza emotiva, ma un piccolo memorandum di auto protezione. Perché lei ha ragione, nessuno bada al nostro interesse più che al proprio, certe volte non lo facciamo nemmeno noi stessi, ma su noi stessi possiamo invertire rotte, sul timone degli altri è uno spreco di vita pensare di voler avere il controllo. Chi va via, va via per salvare se stesso, parti di se stesso, aspetti di se stesso, non per distruggere le nostre. Quella è soltanto una naturale e dolorosa conseguenza, non la conseguenza di un’azione malevola nei nostri confronti. Però l’amore è sempre una scacchiera, anche nella più dolce delle favole.

Forse c’è qualche altra situazione dalla quale non volendo si “distrae” tenendosi occupata in relazioni poco appaganti, qualcosa che le sta più a cuore risolvere, forse qualcosa che è più difficile da risolvere della nuova ultima sconfitta mascalzoniana. Sa, se lei fosse una mia amica le farei i miei più sentiti complimenti per aver cresciuto due figli indipendenti che saranno pieni di affetto per lei e con prospettive all’orizzonte, per essersi presa cura della sua famiglia, come la sua famiglia si sarà presa cura di lei quando lei non poteva farlo da sola, per essersi presa la responsabilità di compromettersi in un matrimonio e la lucidità per tirarsene fuori quando le faceva troppo male. E le direi inoltre, è proprio sicura che lavorare con il suo ex fallimentare marito non sia uno stillicidio quotidiano al quale non sarà di sicuro facile rinunciare visto che parliamo di lavoro, ma forse necessaria come mossa per ripartire più profondamente dai suoi desideri e da ciò che prima che la vita la deludesse pensava dell’amore. Le sembrerà sciocco, ma credo che sia sempre la parte più semplice e indifesa di noi quella che va sempre verso l’energia dell’amore, la stessa che viene ferita, la stessa che a volte non comunica con altre parti più adulte che ognuno di noi. Una parte che vuole essere abbracciata e rassicurata come in quei filmacci americani in cui qualcuno dice che andrà tutto bene, perché per quanta evoluzione, cultura, scienza e via dicendo all’infinito, tutti quanti abbiamo bisogno di qualcuno che ci abbracci e ci dica che andrà tutto bene.

Dalle ricostruzioni come si dice sempre, si comincia sempre con un passetto, un mattoncino, un minuto o anche tre minuti di una canzone che le piace molto. Si regali quei tre minuti e la possibilità di non tagliare fuori dalla sua vita un’emozione così bella, ma di regalarsi degli occhiali nuovi con i quali osservare il mondo, e l’amore.

P.S. Se dovesse fare un buon incontro me lo faccia sapere, sono sempre felice di sapere che lì fuori c’è gente che non si arrende al qualunquismo relazionale, anche e sopratutto, nonostante i fallimenti.

Olimpia

Come ci si riprende da un cuore spezzato?

Ciao Olimpia,

come sempre provo tanta gioia nel leggere i tuoi post e mi ispirano molto le cose che pensi. Spero che tu stia bene.

Sono quella che era stata un’infinità di tempo con un ragazzo meraviglioso ma che non amava davvero, e poi era riuscita a lasciarlo.

Dopo un anno, la situazione per fortuna è cambiata e mi sento più tranquilla e più aderente ai miei veri sentimenti, ma altri problemi sono sopraggiunti.

… Come ci si riprende da un cuore spezzato?

Mi sono innamorata per davvero stavolta… e lui mi ha ricambiato! Tanto quanto me. 

Ho vissuto la bellezza e le emozioni che avrei voluto vivere per una vita intera. Ho cambiato i miei piani per questo nuovo lui.

Lui è perfetto, veramente.

Tutto di lui è pieno di bellezza, dentro e fuori. E anche le cose che di lui sono imperfette, sono perfette abbinate ai miei difetti.

Sono stata talmente innamorata di lui che dopo anni di incertezza ho sentito per la prima volta di essere felice senza alcun compromesso, senza alcun dubbio, e che avrei dato tutto per lui, perché lui era ciò che volevo e mi sembrava incredibile anche solo poterlo immaginare. Ho sentito per la prima volta che tutto, tutto aveva un senso.

Wow.

Sai quelle intese perfette? Emotiva, mentale, fisica. Una roba mai vista prima.

Eravamo elettrizzati al solo incontrarci, al solo parlare. Non riuscivamo più a staccarci quando ci abbracciavamo. Trovavamo fuoco e sorpresa in ogni nostro incontro. Facevo viaggi mentali incredibili sul nostro futuro. Eravamo pieni di idee. Faremo questo, faremo quell’altro.

Ma lui appena mi ero illusa, mi ha detto che preferiva restare con la sua fidanzata di sempre. Che ha capito che insieme “vanno d’accordo” e che “ci tiene a lei”.

Sì perché il nostro amore è nato clandestinamente… Con una naturalezza che non poteva essere fermata.

E da allora, circa un mese fa, con una freddezza impressionante, è sparito.

E da quando se ne è andato la mia creatività si è bloccata.

Se faccio qualcosa per provare a fare stare bene gli altri, cerco di metterci molta cura. Ma non mi dà niente di così profondo, è una sorta di senso del dovere che mi dà una serenità leggera.

Mi circondo di attività ripetitive e razionali e discorsi asettici, tanto la gente è spaventata dalle passioni e non vuole parlarne più di tanto.

Passo il tempo senza riuscire a staccarmi da quel momento. Se riesco a pensare ad altro, prima o poi, la notte, o la mattina, il pensiero ritorna lì.

A volte ripenso anche al mio ex di sempre, perché l’intimità che ci legava era unica e vorrei potergli parlare. Ma è una cosa diversa. Lo rispetto e lo amo ancora, in una maniera diversa, a un livello diverso.

Penso sempre che lui -il nuovo- tornerà prima o poi perché so che lui era felice con me, ma è legato alla sua fidanzata anche se con lei non è così felice. Me lo diceva lui stesso.

Cerco di stordirmi di cose materiali e immateriali che possano ridarmi per un attimo quella sensazione così forte, ma alla fine mi ritrovo a fare in loop cose che so già che non mi daranno quella sensazione.

Fatico ad addentrarmi in nuove canzoni, nuove attività, nuove conoscenze. Mi manca la progettualità, la voglia di scoprire.

Si è bloccato tutto quando lui se ne è andato perché ho sentito che qualsiasi altra vita sarebbe stata uno spreco di tempo.

Fatico a progredire perché non voglio progredire.

Mi rivedo in lui, nell’incapacità di lasciare la persona a cui si è stati legati per anni. Ci è voluta la disperazione per lasciare il mio fidanzato di sempre e non mi aspetto che per lui sia diverso. Forse non la lascerà mai.

A volte riesco a pensare ad altro, è questione di tempo, e di scacciare via le nuvole.

Però io le voglio un pochino queste nuvole, perché mi ricordano che se le scaccio poi perdo qualsiasi speranza di riaverlo indietro.

Non voglio andare avanti, liberarmi dei suoi ricordi e della consapevolezza di essere ancora vivi, da qualche parte.

Non voglio ammettere la sconfitta, non voglio lasciare andare la cosa più bella e assurda che mi sia mai successa.

Come farò ad essere felice di una gioia minore?

Davvero si fa così? O dovrei in qualsiasi modo più o meno immorale convincerlo a ritornare?

Un abbraccio da un’anima solo apparentemente triste, ma ancora felice, se si ricorda di essere stata amata e di poter amare.

Vorrei vivere di amore, è mai possibile?

Vivere dando e ricevendo amore?

Sento che non c’è vita se non posso urlare TI AMO a qualcuno che amo davvero! E quel qualcuno è lui!

E se non è lui, avrei voluto disporre del tempo necessario per capirlo, anziché vedere tutto morire di colpo, sul più bello, prima ancora di iniziare davvero. Questa cosa mi dà tantissima frustrazione, la trovo inaccettabile, non riesco proprio a mandarla giù.

Perché due persone che si amano non possono stare insieme?

Grazie di cuore per aver ascoltato tutto questo.

L.

Cara L. nella mia piccola esperienza non credo di essere mai stata così colpita nel profondo e allo stesso tempo non mi sia sentita così povera di parole come davanti a questa circostanza. Ora è domenica pomeriggio, il tempo fuori è di quel grigio metà inverno, non penso pioverà, ma sono sicura che da qualche parte, in questo momento, forse nel nostro palazzo, nel nostro quartiere o forse saremo noi a farlo, e ci commuoveremo per la tenerezza che ci hai messo tu nel chiedere e spero anche per quella che proverò a metterci anche io nel risponderti. Uso questa parola dopo averci pensato un po’ e averla scelta tra alcune altre e dopo averla allontanata quanto più possibile da un’altra parola, insieme la più voluta e la meno trovata, la verità. Solo con coraggio e senza verità possiamo osare trasformare un momento in parola, sapendo che per un cuore spezzato non c’è e non ci sarà mai LA parola.

Sì, so di quelle intese perfette e sì, so anche di quelle intese perfette che poi si rompono e ancora sì, so anche una cosa più feroce, cioè che certe intese perfette che poi si rompono, si ritrovano in qualche altro luogo e spazio e con una persona diversa. Sono dispiaciuta e insieme contenta per te che tu possa fare parte di coloro che sentono il cuore spezzato. Non è un’esperienza per tutti, è uno stato di disgrazia così universale eppure sentito come se fosse estremamente unico ed esclusivo e che nessuno su questo maledetto orrendo pianeta, possa mai capire che cazzo stiamo provando e che nessun balsamo sempre su questo maledetto orrendo pianeta, possa mai lenire quella voragine, tranne l’amato che sentiamo perso. Qualche anno fa sono capitata nel Museo dei cuori infranti, si trova a Zagabria ed è il posto in cui ho visto più gente piangere tutta nello stesso momento. Si tratta di un posto piccolino in cui sono collezionati tanti oggetti arrivati da tante parti del mondo. Ogni oggetto è stato donato da qualcuno che ha avuto il cuore spezzato e aveva un valore simbolico speciale legato a quell’amore. Sotto ad ognuno una breve didascalia in cui chi l’ha mandato al museo racconta la sua storia e il perché di quell’oggetto. Qualche giorno dopo durante quel viaggio sono arrivata a Sarajevo e feci caso come in un altro museo, uno sulla guerra di quel paese così bello e così ferito, le persone mantenevano un austero silenzio composto. Attento, partecipe, riflettuto, ma composto. In quel momento ho realizzato che avere un cuore spezzato è un dolore che appartiene a una galassia diversa, nella quale anche i migliori tra noi umani, sebbene riusciamo a distinguere con tutta la ragione di cui siamo dotati, che non ne moriremo e che oh signore se esistono ben peggiori calamità che diamine, ecco in quel momento sentiamo nettamente che qualcuno ha spento la luce del mondo e che possiamo solo trascinarci lì dentro, ciechi, nudi nell’anima, soli. Le persone sono sempre morte e hanno ucciso per amore, per amore è stato fatto di tutto e di tutto è stato distrutto. Quando mi ci metto a pensare a quanto sia ovunque vorrei dire a tutti quelli che come te si chiedono se solo di amore si possa vivere, che certo, solo di amore si deve vivere. Il problema è che il sentimento è talmente tanto più grande di noi, che come diceva mi pare addirittura qualcuno di molto famoso, se vabbè adesso una vita, per capirla forse, nemmeno, chissà, settanta volte sette.

Domenica scorsa parlavo con degli amici proprio di questo argomento, perché a questo punto credo la domenica contenga una malinconia speciale da dedicare a coccolare certi pensieri e ti riporto in ordine a caso, qualche loro escamotage trovato in giorni che somiglieranno a quelli che vivi tu. Sono parole di persone a cui voglio bene e so che ognuno ha parlato raccontando momenti vissuti davvero e li ringrazio per essere qui a darci una mano.

-Sono andato a bere o per festeggiare o per deprimermi meglio. Il giorno dopo butto tutto tranne le foto perché sono pezzetti di vita

Vorrei dire di aver fatto subito qualcosa, ma la verità è che quando ho avuto il cuore a pezzettini sono rimasto per settimane nella zero voglia di vivere

– Quello che mi dà più soddisfazione è la disposizione dei mobili: stravolgendo casa ho come la sensazione di spostare la mia vita

– La cosa più nonsense fatta dopo è stata pensare che si sarebbe aggiustato e invece è ancora in millemila pezzettini

– Mi aiutò molto un’amica saggia con cui scambiavo messaggi saggi e un momento catartico fu una sbronza spettacolare che mi fece rischiare di essere arrestato tre volte in mezz’ora

– Ho più di 300 paia di scarpe

– Dopo una rottura in genere mi pongo degli obiettivi altissimi. Se non è vero che aiuta a dimenticare il dolore, perlomeno non perdo di vista la mia vita e posso essere soddisfatta di qualcosa

– Ero più giovane e portavo i capelli lunghissimi. Mi rapai a zero

-I capelli. Però sempre dopo un po’, l’inizio è sempre fatto di canzoni tristi e Nutella

-Mi sono cancellata da i social per un mesetto e sono andata una settimana nella mia città preferita, da sola

– Io mi sono segnato in palestra, ogni tanto ho paura di rimanere fermo anche se mi sto muovendo, ma ora sono qui e mi sento bene

-Cucinarmi cose non sane, ascoltare musica assordante in biblioteca, girare in bici all’alba, prendere un cucciolo

-Tinder gold

-All’inizio mi butto nel caos di tutte le feste e voglio perdermi tra gli sconosciuti, poi mi chiudo a riflettere sul senso della vita e ritorno piano a viverla

-Ho sfogato la mia rabbia distruggendo un mobile che avevamo preso insieme, ho fatto un viaggio in treno di un mese, ho fatto volontariato in carcere

– Musica classica è ottima ma roba importante tipo Mahler, Berlioz, Schubert, evitare le vecchie foto per almeno due mesi, leggere le poesie di Franco Arminio

-Andare a trovare gli amici lontani. Sono stata lasciata mercoledì, giovedì ho prenotato un volo

-Le pippe regà, ma proprio a perderci 2/3 diottrie a settimana

-Camminare, camminare, camminare

Come vedi le risposte a cosa ci si possa fare con un cuore spezzato ci sono e sono tante, però diciamocelo, nessuna tra queste ti ha risposto come avresti voluto, spero però ti abbiano strappato un sorriso anche se agrodolce. Io credo in poche cose in generale proprio nella vita, solo perché crescendo mi pare vedere che più io conosca, meno sappia. Quello che mi piace è pensare all’amore come appunto questa cosona gigantesca che permea la vita di tutti noi, anche degli apparentemente più intangibili alla questione, e in quanto cosona gigantesca, anche materia con la quale uno nella vita impara in tanti e vari modi, a vedere sempre diversa ma mai qualcosa di cui si possa fare a meno. Diciamo che se ci fosse un’accademia del saper avere a che fare con l’amore, ognuno di noi avrebbe il suo scudetto di bravura o di miseria. Qualcuno si ferma per sempre alle basi dell’asilo, in cui tu mi tiri i capelli, io piango, nessuno si spiega, oppure alle elementari in cui la grammatica non è così misteriosa ma ogni tocco è magico e se ti piace qualcuno ti piace per sempre, poi c’è il livello superiori in cui forse diamo addirittura il peggio, tutto il borderline dell’adolescenza, le urla telefoniche, i perché io perché tu, perché chi è quella mignotta o quel coglione con cui ti ho visto scambiare messaggi, c’è l’università in cui ognuno pensa di averci capito qualcosa perché ha spesso scelto il suo indirizzo, la sua storia seria diciamo e ogni tanto si fregia da buon consigliere al tavolo con gli amici, c’è chi decide che non è sufficiente e si spinge oltre, si masterizza in amori aperti, amori lontani, amori dolorosi ma intensi, dolori con problemi da adulti, con problemi di soldi di case. Amori che vogliono essere portati sul piano spirituale del diamoci a qualcosa che non sia l’amore ma mi trasformo in fiore di campo grazie al corso da mille euro al minuto e così starò meglio. Poi le storie ci sbattono e risbattono in qualunque punto del percorso accademico in meno di un secondo e allora tutto ci sembri ricominci. In realtà tutto ciò che si può prendere dalla questione, va avidamente preso, perché è un mistero che somiglia a quello della vita e della morte, in realtà un cuore spezzato una cosa soltanto può fare: può sanguinare.

Tu hai avuto il tuo tempo per vivere una storia che forse non era come la volevi, voi avete avuto il vostro tempo, loro hanno avuto il loro tempo. Il tempo è una variabile interessantissima, contiene la verità più delle parole. Il tempo, i giorni, i mesi i sempre forse in cui dovrai avere a che fare con qualcosa che manca ma che ha dato. Come preservare questo amore, non con metodi amorali, apriresti solo un altro problema e comunque non servirebbe. L’amore non è un pezzo di piombo ma un poliedro a mille facce fatto di acqua e cristallo che non si ferma mai.

Prima di salutarti di dico altre tre cose, come se fossero un abbraccio che poi è una di quelle cose che un cuore spezzato sa ricevere senza fare troppe storie.

Una è una cosa magistrale ma non mia, cioè la risposta di un amico, un giovane collega che non è poi così sicuro di voler fare lo psicologo ma è una di quelle persone che evidentemente dovrebbe perché è preparato, puntuale e appassionato. Quindi lo ringraziamo tantissimo e invitiamo a non mollare anche perché sarebbe un peccato:

Secondo me aiuta riflettere un po’ anche su cosa sia effettivamente una delusione. Una mancata corrispondenza con un’aspettativa, una mancata occasione di vedere il frutto di un proprio investimento, spesso affettivo. L’emergere del senso di colpa per “come sono andate le cose”. Insomma, riuscire ad astrarsi un po’ da tutti questi attributi o elementi così pesanti delle relazioni, aiuta molto. Ripercorrere all’indietro la strada, non per soffrire o per piangere sul latte versato, ma per capire dove nasce la crepa. Certo per fare questo bisogna essere consapevoli del proprio livello di resistenza rispetto ai rimorsi e ai rimpianti. Ma è sempre molto utile pensare a quanto sia plurale questa vita e agli infiniti universi possibili in cui possiamo imbatterci per capire che la nostra sofferenza è importante sì, a volte fa così male da togliere il respiro o la voglia di respirare ma è tanto parte della nostra vita quanto il sorridere o il capire o l’emozionarsi per una poesia. Guardarsi indietro, ricordare la strada compiuta non per vedere da dove si era partiti, ma per vedere dove si è arrivati. Una volta un noto terapeuta mi disse: io quando lavoro con qualcuno devo sempre partire dalla metà piena del bicchiere, con la parte vuota che ce ne faccio? Certo, noi nichilisti avremmo pure molto da ridire ma il senso è questo: esisterà sempre una risorsa positiva anche nell’ultimo degli stronzi, una sua capacità particolare, una sua peculiarità che lo distingue dagli altri o qualcosa in cui riesce abbastanza bene. Da quello si parte o si ri-parte. Tu Olimpia ad esempio sai far vibrare le persone semplicemente con le tue parole, le fai riattivare, riaddrizzi le loro vie quando queste si storcono, prendi le parole e i loro significati e li trasformi in dialoghi in discorsi in cui molti possono rispecchiarsi e questa è praticamente la base di tutto il nostro pensiero. In definitiva, il compito più strano e complicato, tra gli altri, della nostra breve permanenza qui è quello di fare chiarezza tra tutta questa confusione, trovare un luogo e un tempo in cui riusciamo a stare con noi stessi e con le nostre idee, percezioni, riusciamo a conoscerle ed accettarle. Compito arduo. Concludo: a na certa a 16 anni me prende la botta di matto e decido di leggere Michel Foucault, “L’Ermeneutica del soggetto”. In una delle tesi centrali trovai un senso di sollievo e un nuovo compito, e cioè quando Foucault evidenzia come il famoso gnothi seautòn socratico (conosci te stesso che poi sarebbe conosci i tuoi limiti ma qui servirebbe un altro post) che fu stata la massima che per millenni ha guidato lo sviluppo della filosofia e quindi dell’ideale, non era possibile o meglio era per forza riconducibile dentro qualcosa di più grande ovvero epimèleia heautoù, la cura sui, la cura di sé. L’essere prima concentrati, con la sana dose di egoismo, su ciò che ci fa stare bene non solo come semplice “relief” dai vari dolori dell’anima, ma proprio ciò che ci realizza in quanto esseri umani.

Due la mancanza è nelle cose infinitamente piccole, ci sono cioccolatini che non riesci a mangiare, strade che non puoi percorrere, respiri che finiscono molto prima di quando dovrebbero, immagini che colpiscono come mitra alle spalle, non dico canzoni che non riesci ad ascoltare perché sarebbe ovvio, ma non ho mai visto nessuno rivivere e ritrovare così tanto di se stesso come dopo una rottura di cuore. In fondo forse hai solo trovato uno specchio che ti ha ricordato come saresti potuta essere se non fossi stata coraggiosa nel lasciare una storia in cui non vedevi l’amore e ora però ti tocca esserlo fino in fondo.

Tre, se davvero tu pensi che questo incontro abbia avuto a che vedere con l’amore, comportati con amore anche se è troppo tardi o se ti sembra che sia così. La rabbia, le gelosie, l’ombra busserà tutti i giorni e tutti i giorni potrai decidere fino a dove lasciarla entrare. Però tieni sempre a mente le poesie e i libri e le cose belle che parlano dell’amore e anche quella poesia di Michele Mari che non è manco così bella ma dice una cosa bella sull’essere due imbecilli, cercala, tieni a mente il blues nei campi di cotone, ascolta Dark was the night cold was the ground, adesso e pensa che sei vicina a persone lontane, che non conosci, che non hai mai visto, ma che ognuna a modo suo ha dovuto osservare il proprio cuore spezzato e dire e adesso che cazzo faccio. Posso dirti soltanto questo mia cara L. quando ho paura della morte guardo i documentari sull’universo, quando ho paura che l’amore non sarà mai più per me per sempre, guardo le parole di chi ha parlato di amore e penso che un cuore spezzato è un cuore che soffre, ma un cuore che soffre è un cuore che può creare, perché nessuna bella frase è mai nata da nessun giorno perfettamente felice. Nel frattempo fatti cullare da questa malinconia come farebbe un piccolo tronco solido ma perso nella marea e sbattuto dalle onde che non si fermano nemmeno un secondo ma mentre ti sbattono, ti trasportano.

P.S. Sto pensando di organizzare delle riunioni per cuori spezzati, non so ancora i dettagli, so solo che c’è bisogno di un luogo per questi momenti, dove tutti capiscono quello che stai dicendo, come quel giorno in cui non volevo proprio uscire perché mi sentivo di merda e una mia amica di quelle care mi disse, ma che meraviglia, sto di merda pure io, ti passo a prendere tra 20 minuti. Quando sarà pronto sarai mia ospite.

Olimpia

L’ennesimo post su Chiara Ferragni & Co.

Amici, concittadini, connazionali, prestatemi occhio, se volete, se non volete non fa niente. Io vengo a lodare Chiara, non a disprezzarla. Perché Chiara è donna d’onore e anche gli altri, tutte donne e uomini d’onore. Tutti coloro che della loro fame ne hanno fatto una vita piena di soldi, complimenti, invidie, sogni rubati ai film. Credetemi, non sono una di quelle che si fomenta a tirare le pietre al primo peccatore, che si indigna quando qualcosa le sfugge, no. Io sono solo una che nella vita non sa fare infinite cose e, forse, proprio per questo, si diletta e si tormenta nel riflettere su quello che le accade intorno. Oppure sono sopratutto una che nella vita ha sempre faticato a schierarsi, sul credo politico, sulla fede, sulla psicologia di appartenenza, sulle questioni del buono e del cattivo. Per certi aspetti questa è la mia croce, per altri la ritengo la mia delizia. Alle manifestazioni andavo per capire non per urlare, i giornali li leggo sempre per capire, con le persone ci parlo non per giudicarle, diagnosticarle, infilarle in qualche anfratto dal quale poi mi posso distaccare e sentirmi liberata, come si fa col cambio di stagione e le sciarpe di lana e i costumi. Generalizzare è un po’ una pigrizia dello spirito, una scorciatoia, un cunicolo che dal non sapere mi porta al decidere e quindi al dimenticare. Per questo e per altri innumerevoli motivi non me la sento di prendere una posizione definitiva sulla questione di chi influenza chi, per quali ragioni e quanto. Però succede anche che io non riesca a smettere di pensare a certe idee, che si propongono e ripropongono (come i peperoni, i cetrioli, il cocomero e gli enigmi) e tra questi crucci labirintici della mia indisciplinata attitudine allo schieramento, c’è la questione di come la bellezza fisica e la ricchezza monetaria, si sparga nel mondo, elevandosi a potenza, trascinando nel vortice tanta gente che poi finisce per stare male perché non si sente abbastanza adatta.

Prima dell’estate sono andata dal mio parrucchiere di fiducia, dove una ragazza estremamente bella e anche molto simpatica si è occupata di tinteggiare i miei capelli con estrema cura e perizia. Durante l’opera, inevitabilmente data la mia natura chiacchierosa e la natura stessa del luogo parruccheria in quanto tale, siamo finite a parlottare tra di noi, su cose tipo la vita, i trucchi, i fidanzati. Ecco, lei così carina e giovane, venuta a conoscenza del mio mestiere di psi, si è sentita di raccontarmi come vivesse molto male alcuni aspetti dell’esistenza. Tra questi, su tutti, il confronto virtuale e poi anche reale, con le altre ragazze. Mi ha descritto il lungomare del posto in cui vive, una specie di percorso a ostacoli tra un tacco venti, un labbro a canotto e un glitter. Lei si sveglia alle 5 di mattina per sistemarsi in vista della giornata. Doccia veloce e poi al trucco. Due ore e mezza di preparativi per rendere la sua già bellezza, vicina agli standard del lungomare. Io dalla mia sediola mi sono sentita sprofondare, dal momento che, quando va di lusso, mi metto il burrocacao e il correttore e i tacchi ce li ho pure, ma sotto forma di scarpetta da signora, plantare comodo, base larga, una roba così e niente di più. Oh questo non vuol dire che non abbia i miei vezzi, sia chiaro, ma sicuramente i miei vezzi non mi torturano più di tanto. Però quando ero più giovane madonna se lo facevano. Non uscivo a buttare manco la monnezza senza l’eyeliner, se mia madre disgraziatamente mi faceva portare il carrello della spesa quando la accompagnavo al mercato, pregavo gli dei penati che la terra mi inghiottisse, almeno prima di incontrare il coattone di turno ossigenato di cui all’epoca ero invaghita. Poi vabbè, non dico che sia stato solo il passare degli anni a farmi passare le fisime, però sopratutto. Così senza troppo struggermi sono arrivate tutte quelle cose che tengono la mente impegnata, dalle bollette ai colloqui, alle naturali tristezze che naturalmente la vita ci infila dentro l’unhappy meal che ci viene servito. E l’eyeliner è schizzato in fondo alla classifica, il resto dell’esistenza in cima. Oggi a buttare la monnezza ci vado tranquillamente in ciabatte. Mica perché sono strafottente con la società, ma perché penso alla società non importi molto di stare a controllare Olimpia che scarpe s’è messa stamattina. Quindi sto forse cercando di dire che la questione è meramente, banalmente generazionale? Oddio, non credo, però anche. Quella ragazza soffre sul serio perché sente di essere fuori standard, soffre davvero perché il fidanzato l’ha mollata per una che non ha manco il canotto, ma proprio la nave da crociera in faccia. Lei, insieme a tante, a tanti, soffrono davvero. Non sono fragili, non sono stupidi, non sono roba da psicologi anche se poi finisce che ci diventano. Sono soltanto sottoposti notte e giorno, notte giorno, notte e giorno, a modelli che influenzano la loro realtà. Mi piacerebbe poter dire “sottoposti a persone influenti”, “vittime dell’intellighenzia”, ma non posso perché queste parole non c’entrano più. C’entra quanta invidia riesci a muovere nel cuore di chi se ne sta buono buono nella sua stanzetta a provare a sognare a che cazzo vorrebbe fare da grande, senza riuscirci tanto bene come potrebbe se fosse più libero da tutta questa costante pressione visiva che scorre incessantemente nei nostri piccoli apparecchi mobili sempre in mano. Insisto, non ne faccio una questione di causalità lineare, del tipo dato A quindi B, però che faccio? Evito di pensare che un po’ di causalità circolare non finisca per entrarci? Qualcosa, amici, cittadini, connazionali, qualcosa dovrà pure entrarci oppure sto delirando?

La parte più gattara di me vorrebbe urlare “Ao ma non lo vedete che in fondo in fondo, tutto questo esporsi non è da dive di Hollywood ma è proprio da mignottoni?” e ancora “Ao ma quanto delle mie chiappe devo mai esporre per sentirmi viva e sistemata?” Eppure ho sempre pensato che per vivere felici quanto basta servisse sopratutto farsi il culo, non sbandierarlo così voracemente. Sono una bacchettona che si avvia verso la vera vita adulta e perdendo tono muscolare e guadagnando rughe si mette a rompere le scatole su quanto sia vanesia la bellezza fisica? Certo, potrebbe anche essere, in fondo non sono mai stata la prima della sfilata, non sono bionda né dentro né fuori, non sono Miss niente. Mi starò difendendo dal mio essere così normale, cercando di aggredire con l’unica arma forse un po’ affilata del mio armadietto, cioè con quattro parole? Può essere, tutto ma proprio tutto può essere. Allora qualcuno mi spieghi perché mi sento così triste invece che così arrabbiata, cosa più congeniale alla natura che mi riconosco. Sono proprio dispiaciuta dentro, in fondo alla gola, in cima allo stomaco. La cosa che mi fa più male è che se c’è una cosa che mi lega alla vita in quanto luogo bello in cui vivere, sono le storie. Quelle che ho letto, quelle che ascolto, quelle che immagino, e nelle storie belle succede sempre che prima il protagonista soffre molto per qualche motivo, poi soffre ancora, e ancora, e ancora. Poi intravede un sentiero, lo prende, incespica, si rialza, incespica di nuovo e poi alla fine della fine, tutto graffiato ma pieno di avventura e gloria, arriva dove voleva arrivare. Io questo brivido della narrazione non sono disposta a sacrificarlo sull’altare della bellezza, non ancora. Ancora mi piacciono gli eroi, i modesti, i preoccupati, i dubbiosi e i coraggiosi. Ancora identifico in ciò che vorrei essere gesta che non somigliano per niente alla compulsiva esibizione di tutto quello che possiedo, ma di quello che sono. Paperino mi sta simpatico, Tina Modotti, il gatto con gli stivali, Tesla, Pavese, il radiofonista della Tenda Rossa, mio nonno che è tornato a piedi dalla Russia, i vecchietti che sorridono, Don Chisciotte, tutti i Giusti della poesia di Borges, Carver che scrive racconti nel suo garage di notte, Frida anche se se ne parla troppo, Giordano Bruno, Galilei, Robin Hood, il mio idraulico che non fa mai la cresta, Philippe Petit, Giovanna D’arco, Simenon, Moll Flanders, Rita Hayworth, Liz Taylor con tutti quei mariti, Steve Jobs con le sue magliettine, le mie amiche, i miei pazienti che sono supereroi, i miei genitori, me stessa quando ci provo fino in fondo. A me sta simpatica tanta gente. Però non ne posso più di vedere le solite quattro facce comparirmi davanti anche se io non lo scelgo e insieme a loro anche i loro parenti, i loro armadi, le assi delle loro tazze del cesso, poi ancora tette giganti e chiappe dappertutto e muscoli oliati e mai nessuno che sorride e se sorride sorride in maniera plastica ed esibizionista, sempre con i denti e mai con gli occhi.

Non è così leggero e semplice, non basta dire che qualcuno si è fatto da solo per dire che è stato intelligente, casomai è stato furbo, come gli spregiudicati, che poi del giudizio altrui non è vero che non se ne interessano perché vogliono piacere sempre, a tutti, a ogni costo. Io questa curva dell’eroe se non la vedo non mi emoziono perché non mi arriva niente, tranne un processo di identificazione forzata che mi ricorda le litanie delle sette, che a forza di sentirle finisci per crederci pure tu. Essere buoni venditori di se stessi, per me, che non sono nessuno se non quella che sono, vuol dire che a un certo punto smetti avere fame di avere e cominci a dare, ma a dare veramente, mettendoti da parte proprio perché sei stato così furbo e così avido e così al centro. Usque tandem abutere, Chiara Ferragni & Co., patientia nostra?

Perché se io fossi Chiara Ferragni & Co. e Chiara Ferragni & Co. Olimpia, qui ora ci sarebbe un’Olimpia che proverebbe ad abusare veramente di tutto quel potere, invitando ognuno di voi a non essere come loro, a essere quello che vi pare di essere, quello che sognavate sul serio di essere, prima che i sogni di qualcun altro coprissero i vostri con i loro, prima che tutta questa fame del possedere sempre di più vi facesse diventare ciechi e stronzi, prima di scordarci che tanta influenza, oh quanta influenza, potrebbe ancora servire a spingere verso la libertà, al posto di questa condanna alla tristezza eterna, visto che l’obiettivo è sempre spostato più avanti. Più cose, sempre più cose fino a seppellirvici sotto a tutte quelle cose e dimenticare qualsiasi altra ricchezza, qualsiasi altra bellezza. Io di quel potere ne approfitterei fino a sconquassare i vostri spiriti e a donare ad ognuna della vostre ferite una lingua così eloquente da spingere fin le pietre del mondo a sollevarsi, a rivoltarsi.

 

Olimpia Parboni Arquati

Mai smettere di fumare

Quando finisce un grande amore non esistono messaggi per sapere come vanno le cose e non esistono caffè. Esiste solo la malinconia. 

Il primo giorno non è mai il più duro di tutti perché sei gonfio dell’adrenalina della grande scelta e sottovaluti il modo in cui le cose si svolgeranno. Pensi solo che hai smesso di fumare, come se non ci fosse né passato né futuro fuori dalla tua decisione. Al ciao come stai rispondi che hai smesso di fumare e se ti chiedi come stai, ti rispondi solo che hai smesso di fumare. Ma la verità è che stai di merda. O almeno io. Perché io è così che mi sento, come se il grande amore della mia vita mi avesse mollato, no meglio, come se io avessi mollato il grande amore della mia vita perché era troppo stronzo.

Sarà stato pure stronzo però…però ci amavamo. Sotto la pioggia e al mare, controvento e alle fermate degli autobus, dei treni, dei tram, della metropolitana quando ero molto triste, o felice. Ci amavamo nei bagni, sui divani, a tavola, ci amavamo in finestra. Ci amavamo quando faceva troppo freddo per amarci e troppo caldo. Prima degli esami, dopo gli esami, prima delle visite, dopo le visite. In mezzo agli amici e da più grande anche in mezzo ai parenti. Ci amavamo negli spazi piccolissimi degli aeroporti dove tutti si amavano tutti accalcati. La mattina presto, a metà mattina, a pranzo prima e dopo, a cena prima e dopo. Mentre bolliva l’acqua, per la pasta, per il tè. Ci amavamo quando avevo paura, quando non sapevo cosa fare della mia giornata, della mia vita, dei miei capelli, dei miei vestiti, delle mie scarpe, dei miei sensi di colpa e di quelli di responsabilità. Ci amavamo praticamente sempre, cazzo.

E allora perché ho smesso? Beh, ho smesso perché non ci amavamo e basta, ma ci odiavamo anche. Alle 3 di notte quando avevo solo 20 euro nel portafogli e finivo a fare la spesa al distributore, due Snickers, due pacchetti, un accendino Smoking. Per una sigaretta che poi sapeva solo di petrolio e fretta. Al risveglio quando facevo colazione con caffè e tosse, quando mi ammalavo e mi facevo i cicchetti di sciroppo solo per poter fumare. Ci odiavamo da morire quando fumavo solo perché stavo avendo una conversazione noiosissima e volevo distrarmi. Tutte le volte che volevo distrarmi, in generale. Dal lavare i piatti, stendere i panni, uscire di casa, tornare a casa, pulire casa, fare qualcosa, qualunque cosa, tutte le cose scandite da un adesso mi fumo una sigaretta e lo faccio. Un eterno ripetersi di ancora cinque minuti e poi mi alzo per andare a scuola.

Anni di ritardi, di accendini colorati, di sigarette fumate con persone di qualunque tipo che diventavano più amiche semplicemente perché ci stavi fumando insieme. Come è fatta una pausa adesso? Che cosa faccio, cosa devo guardare, cosa devo dire? Cosa faccio quando quello davanti a me al supermercato ha un spesa alta tre piani e sono incastrata lì a pensare a quanto mi rode il culo, cosa faccio quando finalmente esco se non mi fumo una sigaretta? Cammino e basta? Guardo le stelle, la gente, conto le macchine rosse? Entro dal tabaccaio e mi compro le Morositas e basta come alle elementari? Ma sopratutto, come lo scandisco il tempo se al tempo ho tolto le sigarette e mi rimane solamente il tempo?

Ero allo specchio, ho visto una ruga nuova, evidente, profonda, maleducata, all’ angolo della bocca. Ho pensato adesso mi compro una crema carissima, mi compro la Sisleya e vaffanculo, mi faccio tutti filler e arivaffanculo. Mi fumo una sigaretta mentre cerco i prezzi su Internet, me ne fumo un’altra quando li vedo. Posso compensare con la vitamina C, adesso scendo e mi compro le arance. I pompelmi, i limoni, me ne accendo ancora un’altra mentre cerco  dove altro sta la vitamina C. Mi metto a tossire, mi soffio il naso e mi vergogno da morire per gli ultimi venti minuti, per i quasi venti anni della mia vita in cui ho comprato un pacchetto di Camel celesti quasi tutti i giorni.

Non voglio essere la versione che vorrei essere di me stessa solo quando mi accendo una sigaretta e sogno. E non so fumare quando capita, non sono una tipa da grandi occasioni. Io sono un’esagerata, senza confini, senza moderazione. Senza più le sigarette in tasca. I soldi per fumare non li ho mai valutati, i rischi nemmeno. Chi fuma non valuta, fuma e basta. E se dovesse valutare allora si accende una sigaretta e poi lo dimentica. Chi fuma però perde una parte di attenzione che a qualcos’altro forse va pure data. I miei occhi dalla sigaretta con il tramonto al tramonto e basta. Dal dolore con la sigaretta al dolore e basta, alla felicità e basta. Basta. Vediamo com’è la vita e vediamo se mi basta.

Sono qui con una tisana alla liquirizia sul bracciolo della poltrona, adesso che chiudo tutto porto giù il cane, nel frattempo controllo se ai lampioni hanno rimesso le lampadine. Al ritorno prendo il volantino della Conad che ho visto stamattina nella posta, lo sfoglierò mentre cuociono le lenticchie. Chissà quanto costa il prosciutto crudo al chilo, chissà se c’è il tonno in offerta. E domani quando mi sveglio andrò fuori sul balcone a guardare i tetti delle case, tenendomi le mani sui fianchi come i signori di una certa età fanno in spiaggia guardando il mare.

Ho vinto del tempo e una dolce e feroce malinconia. Se vi rimane possibile, un consiglio, davvero, mai smettere di fumare.

 

 

Olimpia Parboni Arquati

La posta di Olimpia

“Quindi tu da piccola devi aver detto un sacco di bugie”, questo il commento meraviglioso del figlio di un’amica che all’epoca aveva 5 anni, quando gli raccontai brevemente la storia di Pinocchio e del suo naso. In realtà è una cosa che mi riesce veramente male e devo dire che negli anni si è rivelato un gran difetto e un discreto pregio insieme. Ve lo accenno perché scrivere queste righe è per me un gesto molto difficile, adesso vi spiego come mai. Alcuni mesi fa, forse un annetto ormai, mi è venuto in mente di introdurre questo spazio qui delle letterine perché oh, è una rubrica dei giornali che ho sempre letto con grande interesse e nel mio piccolo volevo fare lo stesso. Evitando quelle risposte stracciapalle da psicologa in cattedra o quelle stile forum degli ipocondriaci in cui ti dicono “non abbiamo informazioni sufficienti per risponderle, si rivolga al suo medico”, ma provando veramente a rispondere qualcosa che potesse essere utile per qualcuno.

Non mi ricordo chi mi disse di non fare come Natalia Aspesi che a un certo punto si scriveva le lettere da sola e io risi molto promettendo che non l’avrei mai fatto e poi comunque non saprei scrivere con uno stile troppo diverso quindi mi avrebbero sgamato subito. Le cose sono andate in un altro modo, che di lettere ne ho ricevute tantissime, lunghissime, bellissime, personalissime. E allora io che ho fatto, mi sono sentita felice come il coniglio Pasqualone per parecchi mesi, mi sono rimboccata le maniche della tuta da casa e ho risposto a qualcuno. Poi però ho smesso. Ho smesso perché sono stata pigra e forse anche un pochino stronza. Ho smesso perché mi sono spaventata di tutte quelle parole e ho smesso perché ho avuto paura di non saper rispondere.

In questi mesi non ho mai smesso di pensare che il giorno dopo l’avrei fatto, ma quel giorno non è arrivato mai. Ho pensato anche di rispondere con enorme ritardo, inventandomi scuse varie, dalla cartella spam che me le aveva nascoste, al virus, al braccio ingessato. Ma la verità è soltanto quella che ho raccontato. Quindi vorrei chiedere scusa, se per caso lo stessero leggendo, a quelle persone che mi hanno detto tanto e sono rimaste con niente. So che non vi avrebbe cambiato la vita, ci mancherebbe, però che scorrettezza in ogni caso.

Se quel giorno non è mai arrivato, è arrivato questo in cui mi e vi propongo di ricominciare da dove eravamo rimasti e di permettere ad altre storie di trovare uno spazio. E anche se non è nella mia natura, vorrei mettere delle condizioni perché so che possono aiutare a non farmi ritrovare a chiedere di nuovo scusa tra un altro anno.

  • Che mi diate l’ok a renderle pubbliche, ovviamente togliendo tutti i dati personali a meno che non vogliate metterci il nome. In questo modo vinciamo entrambi. Se avessi due o tre vite una la passerei a rispondere a chiunque su qualunque tema, ma le ore della giornata sono poche quindi il regalo deve essere reciproco.
  • Che siano brevi abbastanza da poter essere pubblicate per intero. Non perché la lunghezza sia cosa da temere, ma devono poterle leggere tutti, anche i meno allenati a leggere e non vorrei mai fare un lavoro di editing in cui taglio io parole vostre.

Le condizioni sono solamente queste due, per quanto riguarda la fiducia vi do la mia parola personale e anche professionale che non ne farò mai e poi mai nessun utilizzo diverso da quello che vi ho detto e che il vostro nome rimarrà un’informazione segreta come fosse della CIA.

Come ogni regola, anche in questa ci sono delle eccezioni e per spiegarlo userò un esempio di una scrittore che mi piace tanto, Goffredo Parise, che per un anno tenne sul Corriere della Sera, una rubrica del genere. Di norma non rispondeva mai a quelle anonime, nel mio caso risponderei anche senza pubblicare nulla, a lettere come quelle di un tale Michele, che si firmò soltanto con il nome a cui Parise rispose lo stesso perché in quelle righe gli parlò della sua voglia di scendere dal mondo, dando una delle risposte più semplici e belle ed eleganti che io abbia mai letto: «Mi dispiace molto che lei non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome ma l’avrei cercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è dato da vivere (qualunque essa sia, sempre bella appunto perché imprevedibile come il tempo) e che è tutto, dico tutto, quello che abbiamo».

L’indirizzo è questo: olimpiaparboniarquati@gmail.com

A presto,

Olimpia

I buoni propositi sono sempre una cattiva idea

Nell’ultima domenica del primo mese dell’anno, circondata da tazze di Nescafè e sigarette lasciate a metà, mi siedo al solito posto e vi racconto quello che volevo dirvi da un sacco di giorni: i vostri buoni propositi mi stanno tremendamente sul cazzo. I miei personali forse ancora di più. Sono su questa terra da 33 anni e non ho ancora mai visto nessuno portare a termine tutte quelle cagate che si scrivono i primi giorni dell’anno nel diario mentale fatto a forma di cuore che ci portiamo dentro. In quello dei miei 16 anni invece ho trovato una lista che faceva più o meno così: Caro anno che stai per arrivare ti volevo chiedere giusto due o tre favori per i prossimi trecento e rotti giorni di cui sei fatto. Caro anno che stai per arrivare, per favore fammi trovare un fidanzato bellissimo e bravo, fammi diventare a me bellissima e ancora più brava, fai che i miei genitori stiano bene sempre e fammi avere un milione di amici. Ovviamente in quell’anno non è successa manco mezza cosa di quelle che avevo chiesto e ci ho messo tutta l’altra metà della vita che ho a capire come mai queste intenzioni non funzionano mai.

Ditemi voi se mi sto sbagliando o sto delirando o forse sto solamente sognando. È che lì fuori è pieno ma pieno pieno tipo la metro B prima che arrivi a Termini la mattina alle 8, di gente che da domani in poi vuole: mangiare sempre sano, sempre pure a Natale, portarsi il maledettissimo pranzo da casa invece di mangiare tramezzini al bar nella pausa pranzo. Io vi vedo ragazzi, non vi nascondete che tanto non ci riuscite. Vi vedo che cercate di organizzarvi le verdurine del cazzo da preparare la sera prima o meglio ancora la domenica per poi surgelare tutto e avercelo pronto in piccoli pacchettini perfettamente simmetrici. Vedo gente che il lunedì a colazione si sveglia vegana manco fosse un’apparizione della madonna durante il sonno e il lunedì a cena tutta pizza e mortazza. Vedo gente che vuole smettere con le relazioni tossiche, con i narcisisti, con l’alcol, le sigarette, le canne, anche in questo caso cercando contorni più da santo che da essere umano. Donne che quest’anno la dieta come si deve ma per pensarla a fondo, affondano macine nel barattolo della nutella. E poi scattano gli abbonamenti annuali in palestra del pago tutto prima così sono obbligata ad andarci e invece manco per niente che il 3 Febbraio avete già buttato il pantalone di lycra insieme alle verdurine del cazzo. Vi vedo che vi volete impegnare a essere senza macchia e senza peccato, così perfetti che pare vi abbiano fatto una lobotomia. Rigidi, imbalsamati e ottusi di fronte alla grande, grandissima, sublime imprevedibilità contenuta nei giorni.

Poi ci sono quelli che invece spingono forte sul senso delle possibilità e del positivismo, quelli che va sempre tutto bene, quelli che l’importante è che stai nel tuo tempo perché non è mai veramente tardi e ogni giorno può essere giusto per cominciare qualcosa. Insomma, quelli che sono rimasti sotto all’invocazione di Steve Jobs buonanima e che si sentono così hunry e così foolish in ogni momento perfino al cesso e in fila alle poste. Ma basta con questa cosa che la vita va mangiata in due o tre bocconi, quando mai? Dico non lo sentite come pesa il mondo certe volte? Non la vedete e sentite questa malinconia, venite venite andiamo via, come canta Guccini. Anche il vostro proposito di non avere propositi ma pensare sempre al lato buono di tutto quanto, mi sta tremendamente sul cazzo. E non fa eccezione il mio personale ottimismo buttato lì per fare sostanza tipo la panna sulla carbonara.

Vorrei che vivessimo tutti con disordine quasi ovunque, spettinati e liberi da tutte queste cose stupide che ci ingabbiano l’anima. Perché non sarò io e non sarai nemmeno tu quello che porterà il logos perfetto lì dove c’è il caos, né tua zia né la mia né tuo cugino quello che vive a Londra. Non sarà mai nessuno di noi il profeta che farà del proprio corpo un tempio, della propria casa una pagina da rivista d’arredamento, del proprio amore un campo di fiori invece di un campo minato. Nessuno. Mai.

Vorrei che facessimo tutti soltanto cattivi propositi e intanto vi dico i miei: Caro anno che sei già cominciato, per i mesi che verranno io non voglio trovare nessuno che mi salvi da niente, non voglio essere bellissima e tanto brava, non voglio imparare a truccarmi come si deve perché il mondo si è abituato a vedermi così e ogni tanto a volermi anche bene così, non voglio aggiornare questo posto prezioso per me in cui scrivo le mie cosette ogni giovedì come mi ero promessa, non imparerò a farmi le trecce francesi come quelle di Instagram e mi metterò il mollettone chissenefrega , non mi berrò la spremuta tutte le mattine perché io la mattina non so manco come mi chiamo, non chiederò scusa a tutti quelli che devo, non sarò sempre buona con i miei genitori, i miei amici e il mio cane, non ordinerò le cose nell’armadio secondo sfumature cromatiche che nemmeno conosco, ma sopratutto non vivrò mai ogni giorno come se fosse l’ultimo. Perché mettiamo che oggi fosse veramente il mio ultimo giorno, vorrei essere ricordata per la persona disordinata che sono, circondata da tazze mezze finite e sigarette mezze spente.

Vorrei che facessimo tutti soltanto propositi pazzi perché d’accordo che la vita fa un po’ cagare, ma alla fine è pure bellissima. E come dice quel signore dell’oroscopo che ci piace a tutti, Apocalypse is now, so let’s dance. Quindi se volete proprio fare una lista di regole che romperete continuamente allora cerchiamo di sceglierle bene, come se fossimo liberi dalle catene strette del dover essere per forza qualcuno che non ci somiglia per niente. Caro anno che mi cammini a fianco, quest’anno sarebbe carino se riuscissi a crescere una piantina con i fiori invece dei soliti cactus, sarebbe carino se decidessi di fare una parete di un bel colore e poi cambiassi idea. Sarebbe carino se fossi chi sono sempre, continuando a sbagliare a casaccio ma con tanto gusto e tanta incoscienza. Perché ragazzi, tutti siamo quello che siamo e anche un po’ quello che potremmo essere, ma sopratutto quello che siamo. Non ci dobbiamo amare senza condizioni ma nemmeno torturare senza cognizione e allora basta con questi buoni propositi che in realtà non sono buoni per niente, sono solo buonisti. Schemi rubati all’idea di felicità più in voga del momento, etichette strappate e ricucite con la spillatrice che ci fanno sembrare soltanto più goffi e fallimentari.

Cos’è la vita a parte quella mezza merda e mezza meraviglia? Proprio quella cosa che ti capita mentre sei tutto intento a fare propositi di quello che dovrebbe essere. Per cui siate come vi pare, l’importante è cercare di essere. E dite a voi stessi che in un giorno qualunque vi impegnerete a fare una carezza a un cane randagio, un sorriso al casellante in autostrada, un pensiero a un vostro amico lontano, una piccola parola in più alla vostra mamma che è sempre preziosa. Che non ballerete il tip tap sul cuore di nessuno, che non ruberete a meno che non sia necessario farlo, che non offenderete a meno che non sia necessario farlo. In un giorno qualunque da qui al prossimo anno farete una torta di mele in un pomeriggio vuoto, vedrete un film che la gente ritiene palloso, abbraccerete di più, farete un piccolo viaggio in qualche parte vicina che avete sempre ignorato, leggerete un libro mentre fuori piove, curerete di più il vostro basilico, mangerete le vostre verdurine del cazzo ok, ma come contorno a qualcosa di buono sul serio, vi guarderete un momento allo specchio, magari solo di sfuggita e farete un bell’occhiolino a quella bella faccetta che vedete lì dentro e le sorriderete e la ringrazierete di starvi sempre accanto in tutti i momenti. Non amatevi mai per partito preso ma dio mio non diventate ostaggi di voi stessi, perché tutto quello che siete e sarete è bellissimo perché è vostro e perché quei centimetri di pelle, occhi e sorriso che avete è proprio tutto ma tutto quello che abbiamo, quindi lasciatevi perdere e lasciatevi liberi di perdere, che fallire i piani è un gesto di umiltà e non di stupidità.

Adesso vi mando un abbraccio, qui dal mio solito posto in mezzo alle mie cose lasciate a metà come queste parole che vorrei non finissero mai, invece siccome oggi è domenica e domani di nuovo lunedì ho una lista di preghiere da scrivere che domani infrangerò, come le onde del mare infinito si rompono sugli scogli senza farsi male.

 

Intervento mezzo secchione sulla fine del Postmoderno

Non ho sempre avuto un buon rapporto con le cose che riguardano la cultura generale. Fino ad un certo punto scappavo dai libri come si scappa dallo sciroppo per la tosse, ero la tipica da 7 in condotta che se la passava spedita fuori dalla classe a conteggiare le mosche e ogni volta che si rischiava di entrare in argomenti vagamente impegnati, liquidavo la cosa con un accoratissimo “ammazzachepalle”Mia madre che cercava di spiegarmi i tempi verbali era ammazzachepalle, la biografia di Ungaretti era ammazzachepalle, le introduzioni a qualsiasi cosa, un ammazzachepallissime.

Poi verso i 15 anni, dopo aver preso un N.C. (non classificabile) ad una versione di latino, credo che mi vergognai talmente tanto di essere un sottozero che iniziai a smettere di prendere a capocciate i libri e cominciai a vedere che avevano da raccontare. Diciamo che ci tenevo tanto a fare la diversa fuori dalla mischia che avevo vinto il cappello da asino ed ero stata liberata dai vincoli dell’essere considerata un numero, ma spedita lì dove stanno quelli cacciati via dal gruppo, non quelli che se ne stanno fuori perché l’hanno deciso loro. E pure questo, devo ammettere, era una cosa che tutto sommato mi rompeva parecchio le palle.

Vi parlo della mia redenzione da un certo tipo di ignoranza perché, come per tante altre cose, non sopporto chi ti dice che studiare è importante perché sì e basta. Studiare non è importante, è semplicemente fighissimo. Ti darà sempre cose a cui pensare se ti ritrovi alla fermata dell’autobus senza lo smartphone, ti accompagnerà durante le ore di insonnia con riflessioni interessanti e mai inutili, in pratica ti permette un miglior monologo interno ma, sopratutto, ti faciliterà nella sottile arte del rimorchio durante gli aperitivi, le feste , le cene e quello che vi pare. Perché se stiamo ancora a pensare che per vincere servono soltanto i muscoli o soltanto le tette, allora rimane sicuro che continueremo a perdere.

Torniamo all’ispido argomento domenicale che mi è venuto in mente: Er Postmoderno. Anche se qualcuno di voi si starà dicendo si vabbè ma  che è er Postmoderno, se magna? Se magna, se magna. In qualche modo se magna e tra poco ci ritorno.

Questa strana bestiola la possiamo definire come una sfumatura di colore particolare che è andata di moda per un certo periodo. Un po’ come la moda del capello grigio o di quello rosa o di quello arcobaleno. Ecco, questa moda, come tutte le mode, nasce come risposta a quella che c’era prima, che in questo caso si chiamava Modernismo (ah però che fantasia sti acculturati), che a sua volta era nato dopo il Romanticismo (non quello delle rose rosse, mi raccomando). In pratica ogni trend nasce e cresce perché ci appalliamo di quello che c’era prima e proviamo a fare il contrario. Se questo è vero nella cultura, meno vero è nelle nostre biografie. Infatti lì, la maggioranza di noi rimane incastrata tutta la vita in un unico trend che ripetiamo fino all’ultimo respiro. Il perché magari una volta ce lo raccontiamo ma non oggi. Oggi fatemi fare la mezza secchiona della domenica invece della psicologa.

Er Postmoderno è quella cosa che ha fatto sì che, passati i momenti storici delle grandi dittature e della grandi guerre, potessimo finalmente esprimere le nostre volontà in tanti modi quanti riuscissimo a immaginare. Questa libertà si vedeva un po’ tutto intorno, prima di tutto nell’arte perché gli artisti so sensibili, si sa. Allora gli architetti, i pittori, gli scrittori, iniziano a fare le cose senza curarsi di rispettare nessun regola tranne quella di non averne nessuna e lo fanno con ironia. Si sperimenta tutto perché questo è il trend del momento e la moda vuole che si distruggano gli ordini costituiti e si giochi con la tavolozza dei colori a più non posso. A questa grande libertà di espressione corrispose, dopo un lungo periodo festoso, un grande senso di incertezza, esistenziale, politica, familiare, generale. Per tornare al nostro esempio dei capelli, se l’hanno scorso andavano tanto i capelli tutti colorati, quest’estate la storia continua ma è affiancata da un grande ritorno al colore neutro, 5O mila sfumature di castano naturale, magari con l’hashtag davanti. La prossima estate chiunque avrà una ciocca fucsia sarà ormai etichettato come “antico“.

Lo so che starete pensando che confondere i temi da parrucchiere con le grandi condizioni della cultura nel pensiero occidentale è una cosa da persona superficiale o forse un peccato grave, non lo so. Però so che se aveste anche voi un parrucchiere come il mio allora lo fareste. Ogni volta che vado a fare una “seduta” da lui, finiamo sempre per ripercorrere gli stili adottati dalla Bertè negli ultimi 20 anni e parallelamente toccare spunti esistenziali. Le cose mezze secchione si annidano nei luoghi comuni, non solo nelle aule delle università o nei convegni.

Eppure che Er Postmderno sia finito lo hanno deciso proprio con un convegno, 7 anni fa e quasi nessuno se n’era accorto. Ah, vi ricordo che alcune volte gli esseri umani hanno fatto convegni per decidere cose molte peggiori di queste, tipo a quale sesso appartenessero gli angeli, terribile dubbio che deve aver tolto il sonno a qualcuno, a un certo punto, tanti anni fa. Diciamo pure che nessuno se n’era accorto perché di certe cose, si parla in modo talmente tanto difficile da capire che nessuno se ne interessa. E, mannaggia a noi, la cultura è proprio una di quelle cose che si tratta con parole incomprensibili ai più e spesso è usata solo per darsi un tono in ipotetici salotti con altre persone che a loro volta si esprimono in modo astruso e forse nessuno ci capisce niente ma tutti si vergognano a dirlo, quindi si continua a parlare a monologhi invece che a dialoghi.

A me invece piace essere dialogica, o almeno provarci spesso, e mo’ vi dico da cosa si vede che Er Post è finito e sta iniziando una nuova era (sta iniziando pure quella dell’Acquario secondo gli astrologi acculturati ma non saprei esprimermi, in comune hanno il fatto che si manifestano lentamente). La libertà di ieri è diventata un leggero ammazzachepalle e pare come che abbiamo bisogno di nuove verità. Ieri la verità non la cercavamo più, oggi cominciamo a preferire il castano naturale. Ieri ci piaceva la Nouvelle Cuisine, oggi ci piacciono di nuovo le tagliatelle come la faceva nonna, i cibi a km 0, gli orti autoprodotti, il fatto in casa e il fatto semplice. E poi il vintage, il vintage e ancora il vintage. Ecco la parola che sta tornando: semplicità. O autenticità o genuinità o zero olio di palma, fate vobis.

I giovani si ricominciano a sposare e fare figlioli, i grafici lasciano il lavoro e vanno a vivere in campagna, le bellone di Instagram cominciano a farsi le foto senza filtro, senza trucco, senza troppo inganno. Si rispolverano le borse della nonna e si riprendono i libri in mano, alla faccia di chi dice che in mano abbiamo sempre e solo il telefono. Abbiamo ancora una volta bisogno di cercare “dio”, non più nel nulla (Nietzche, buonissima anima), ma in qualcosa. Ed ecco lì che spuntano i vegani estremisti, gli estremisti e basta, quelli che vanno in giro per il mondo scalzi, quelli che si danno allo sport come missione. Vale tutto basta che sia qualcosa che somigli ad un regola. (E basta non esagerare se no poi diventate ammazzachepalle).

Voi direte, ma quando mai? Hai presente il mare di Internet, la globalizzazione, il filtro bellezza? Olimpia ma di che cosa stai parlando?! Eh, lo so, lo so, avete ragione. Ma ho ragione pure io, lo sento in fondo al mio animo da mezza secchiona della domenica. E comunque ho detto che queste cose ci mettono un po’ a mostrarsi, molto più di quanto ci mettano le cose della passerella ad arrivare sulle stampelle di H&M.

Il Realismo, così l’hanno chiamato, si sta facendo sentire. Ci vuole meno armati e più buoni, meno ribelli e più comunicativi. Ci sta chiedendo di essere quello che siamo, qualsiasi cosa siamo, e di smetterla di fare finta di non voler essere niente e perdere la vita a chiederci dove stiamo andando. Se er Postmoderno è l’Opera House di Sidney, quella tutta curve metalliche che pare un veliero, il Realismo è una casetta come quelle casette che disegnano i bambini sui quaderni.

Adesso la mezza secchiona della domenica vi saluta, augurandovi di trovare il vostro modo di cavalcare il trend del momento senza troppa paura e con il desiderio di cercare voi stessi e il vostro vero colore.

L’insopportabile violenza nei social network

Augurare la morte a una persona è sempre una brutta cosa, ma augurarla a qualcuno che non abbiamo mai visto in faccia è una di quelle cose, e sono veramente poche, che scriverei sulla lavagna sotto la voce “voi siete tutti quanti pazzi”.

Sì perché la violenza non è una grande novità, è solo l’altra faccia dell’amore. O ti accetto perché siamo d’accordo, oppure ti devo distruggere fino a che non mi diventi polvere tra le mani. Ce l’avevano i greci, ce l’avevano i romani e ce l’aveva tutta quella gente che troviamo sui libri di storia di ieri, di oggi e di dopodomani. Una di quelle robe alla mors tua vita mea, homo homini lupus, o li mortacci tua e basta. Insomma signori, su questo tema ci si scrivono i trattati, non pretendo di fare un ottimo riassunto sull’utilità dell’odio, mi voglio limitare a ricordarci che la funzione del capro espiatorio è una cosa importante perché permette alle persone di unirsi per un obiettivo comune, fornisce una continua fonte di dialogo e ci fa sentire migliori perché sotto sotto ci piace coprire le nostre travi, sottolineando le pagliuzze negli occhi di tutti gli altri.

Però se pensate che io stia qui a portare parole di pace allora vi sbagliate. Non sono il tipo. Ho sempre pensato che la pace sia più difficile delle bombe, i cazzotti più facili degli abbracci e i rimproveri dei complimenti. Non sopporto Imagine di John Lennon eppure una volta, a Firenze, ho ballato con un Hare Krishna in mezzo alla strada, ma solo per allentare i limiti della mia timidezza. Spesso divento un drago sputafiamme e sento crescere in me lo spirito di Charles Bronson, assumendo le vesti da giustiziere della notte ma col dialetto di una della Garbatella.

Vi confesso anche due episodi di gioventù (più gioventù di adesso) che a ripensarci mi lasciano ancora attonita, ma servono solo per rassicurarvi del fatto che non sto qui a sventolare bandiere bianche e dire che offendere gli altri è brutto e cattivo quindi non si fa. Il primo episodio mi è successo in un bagno della stazione di Parigi in cui bisognava versare un contributo di 2 euro per poter entrare. Lo verso in una soluzione unica con monetona singola ma il tornello non gira, allora chiedo all’inserviente cosa potesse essere successo. Sbuffando mi dice che se non metto i soldi non funziona, io dico che li ho messi, lui dice di no, io insisto, lui pure, io peggio, lui mi dice italiana bugiarda di merda come tua madre e tua nonna e come tutti gli altri, mi volta le spalle e se ne va. A quel punto interviene un signore che lo comincia a insultare perché il tipo è scuro di pelle, una ragazza che invece se la prende col signore perché è razzista, io non ci capisco niente ma sopratutto vorrei andare in bagno. Mentre tutti urlano con tutti, scavalco il tornello, infilo le mani nel portafoglio, raccolgo tutte le monete in un solo pugno e con la peggiore faccia da Charles Bronson, tiro tutto il malloppo contro il muro del bagno ed entro come un cowboy dicendo in mente una frase tipo “tieniti pure il resto“. Ah, che personcina terribile quella volta. E anche quell’altra volta che mi trovavo al mare e il barista mi disse che ero una grande rincoglionita perché non avevo preso in cassa, oltre allo scontrino, pure i gettoni per le cose da bere. Gettoni che non mi avevano mica dato e glielo dico. Ma anche stavolta lui non ci crede e mi dice di togliermi di mezzo che stavo intasando la fila. Io, che vi ho detto sono sempre Charles, insisto sulla mia posizione, lui insiste sulla sua e la cosa prende una brutta piega perché oltre che della rincoglionita mi regala insulti peggiori che non ripeto nemmeno io che sono grande fanatica delle parolacce. A quel punto mi si annebbia la vista e scavalco il bancone, afferrandolo per la camicia e dicendogli che la prossima volta tutte quelle cose poteva pure dirle a sua sorella (o zia, non lo so, comunque la mamma no). Come vedete, quando mi incazzo non mi risparmio e scavalcherei di tutto se qualcuno mi offende oltre certi limiti.

Ebbene sono stata una testa calda e ogni tanto anche un po’ una testa di cazzo e basta. E che vuol dire allora, che ho smesso di saltare ostacoli e di rispondere agli insulti? Sì, ho smesso. E non l’ho fatto perché è una cosa brutta e cattiva, ma perché quando mi incazzo forte per delle ragioni stupide, poi rimango incazzata per tutto il giorno e certe volte anche per quello dopo. Mentre se ai vaffanculo rispondo salutando con la mano come la regna Elisabetta, ho scoperto che mi viene così da ridere che mi passa subito e mi rende libera dalla bile che poi mi intasa lo stomaco e mi fa venire le rughe. Certe volte bisogna smettere certi comportamenti perché costano troppa fatica e basta, senza cercare di darsi un giudizio o le frustate sulla schiena per aver sbagliato.

E allora belli miei, ma che cosa ci succede su questi social? Come ci viene in mente di insultare madri, figli e intere generazioni? Come ci viene in mente di sentirci tanto progressisti e mettere invece tutti alla gogna come si faceva nel Medioevo, tirando la frutta in faccia a qualcuno solo perché qualcun altro l’ha tirato in mezzo alla piazza? Lo sapete che oltre alla frutta, quelli alla gogna si prendevano pure delle palate di sterco sugli occhi e in bocca? Ecco, noi facciamo la stesso cosa. Esattamente la stessa cosa.

Ogni volta che spargiamo odio sopra le idee di qualcun altro diventiamo proprio come i terroristi che tanto odiamo, ciechi e sordi per ideali che forse nemmeno esistono. Spietati come grande inquisitori, imitando goffamente il povero Cicerone e tutti gli oratori che si dilettavano a distruggere il prossimo con le parole, ma almeno lo facevano con stile. Non siamo i principi del foro, non siamo dei grandi retori, non siamo mica Torquemada, quindi quando ci viene voglia di fare a pezzi qualcun altro, andiamoci a fare una bella corsa oppure puliamo le mattonelle in bagno o facciamo un bell’urlo dentro all’armadio invece che agli sconosciuti.

Se poi vi capita di dover tirare fuori il vostro personale Charles dalla vostra anima, allora fatelo. Ogni tanto è pure giusto fare i primitivi e ricordarci che siamo pur sempre figli degli scimmioni, ma fatelo quando è proprio giusto e non c’è nient’altro che si possa fare. In tutti gli altri casi ma lasciatela correre questa vita, lanciare merda sugli altri non vi farà sentire sul piedistallo dei giusti, ma su quello dei rancorosi che non hanno nient’altro di meglio da fare che dire agli altri che cosa è meglio. O se siete personcine dal prurito alle mani facili, che una parola devono lasciarla sempre e zitti non ci sanno stare, allora prendetevi del tempo prima di insultare. Leggetevi le Catilinarie del vecchio Cicero, leggetevi L’arte di insultare di quel bel depre intellettuale di Schopenhauer. 

Se volete la gloria del vincitore, se volete che tutti vi riempiano di pollici all’insù per come mettete insieme le vostre pallottole, allora fatelo pure cazzo, però fatelo per bene. Fatelo con grazia e con pazienza, perché anche l’antipatica ha la sua eleganza e fare i tamarelli di borgata siamo bravi tutti, compreso il mio Charles interno quando viene a trovarmi.

L’odio paga pochissimo e raramente, proprio come fa l’amore. Anzi, pensateci un attimo, regalereste mai tutto il vostro amore a qualcuno che non avete mai visto? Ma no che non lo fareste, allora perché dovreste regalare tutto il vostro odio così alla cieca? Sono entrambe energie preziose ed entrambe vanno meritate. E poi, come si dice qua alla Garbatella, se te devo mandà affanculo, bisogna che te guardo nell’occhi mentre lo faccio.

 

Combattere il male di vivere in poche mosse e senza uscire di casa.

Spesso il male di vivere ho incontrateccetera eccetera eccetera. Lo so, io lo so che anche tu sei un po’ come me e anche tu tendi a svegliarti con quella sensazione di amaro nel cuore almeno una volta ogni settimana. Non sai come si chiama, non c’è sempre un motivo ma che ti capiti di aprire gli occhi con quella morsetta tutta stretta intorno al petto, rimane una verità incontrovertibile. Ora qui potremmo pure chiamare in causa l’universo intero cercando di motivare l’origine di tale malessere, ma finiremmo per perderci in una galassia di significati che ci allontanerebbero da quello che voglio dirti.  L’esistenzialismo, il capitalismo, il buddismo, il menefreghismo, il qualunquismo, il femminismo, il veganismo, tutti. Sono tutti colpevoli del fatto che qualunque cosa succeda, qualunque cosa ci passi tra le mani, non troviamo comunque il modo di starcene zitti e contenti a godercela, senza doverci dare ogni tanto una bella ripassata nel male di vivere come le cotolette nel pangrattato.

Quindi se te sei un po’ come me le cose sono due: o decidi che una spiegazione la devi trovare e allora ti imbarchi in questa crociata tempestosa e non ti arrendi fino a che non hai trovato un nome abbastanza adatto. Scorri le possibilità e vedi cosa ti convince meglio, se fermarti nel girone dei depressi, dei bipolari, degli ignavi, degli incompresi, degli eremiti, del dopolavoro ferroviario o del circolo bocce, le possibilità sono infinite, l’importante e che ti ci senta a casa. Oppure fai come me e questa crociata non la combatti, ma la accogli con un abbraccio come si fa con un vecchio amico.

Non lo so se questa è una cosa giusta oppure sbagliata, però ti giuro che a lungo andare, risparmi un sacco di tempo utile. Quel tempo che prima investivi a cercare il bandolo della saudade, lo puoi passare a fare altre cose, perché tanto lo sai che poi domani passa, giusto? Quindi, come dice il mio astrologo di fiducia, se l’apocalisse è adesso, tanto vale ballare o come ha detto qualcuno ma non so chi, visto che stai nel tunnel, a questo punto arredalo.

Negli anni mi sono affinata parecchio, giorno di saudade dopo saudade, a trovare dei modi semplici che mi fanno arrivare alla fine della mia giornata di merda, un po’ meno avvilita, un po’ meno malinconica e con un po’ meno voglia di rispondere che va di merda se qualcuno dovesse chiedermi come sto. Adesso ti faccio una breve lista che tante volte hai visto mai ti possa aiutare pure a te. Insomma, la verità è che ci raccontano che per stare bene dobbiamo sempre fare chissà che, scalare montagne, perdonare torti, abbandonare rancori, invece secondo me ogni tanto dobbiamo solo rimboccarci le maniche e cercare di prendere il mal de vivre come un momento in cui la vita ti ricorda che per poterla vivere, la cosa che ti devi allenare a fare, è a diventare molto creativo. 

Le giornate di merda sono come un frigorifero quasi vuoto, ti costringono a dare qualcosa anche quando da dare ti è rimasto soltanto il peggio e una coccia di parmigiano.

E quando mi tocca quella minestra, io di solito me la cucino sempre così:

  • Risveglio muscolare con i Wu Tang Clan. Ebbene sì, niente grandi classici della canzone italiana, niente romanticherie smielate ma soltanto loro a tutto volume. Tu mi chiederai perché ma la verità è che non lo so perché ma con questa colonna sonora non puoi mai essere veramente triste. Fanno troppo casino, fanno troppo ritmo e ti fanno sentire lontano da tutto il resto e vicino a un realtà che sta soltanto nei telefilm. Quindi se ti svegli male prova a farlo anche tu, prima del caffè, prima di tutto. Scommetto una stecca di sigarette che dopo cinque minuti corri a prendere gli occhiali da sole e te ne vai in bagno alzando le mani in aria.
  • 3 caffè e 7 sigarette dopo sono pronta per affrontare il resto del mio disagio e quindi decido che, per darmi un bello spintone che mi fa reggere fino al pomeriggio, anche solo contemplando le foglie muoversi fuori dalla finestra, il meglio che posso fare è mettere le mani in quello che più odio tra tutte le cose di questo mondo: la burocrazia. Ed ecco che, soffrendo come se stessi facendo 100 flessioni, comincio ad aprire cassetti, sistemare due o tre bollette, aprire la posta e scrivere una di quelle risposte che rimandi da mesi e mesi. Se riesci a fare soltanto una di queste cose, ti prometto che anche solo per un momento, proverai un sollievo così tanto grande che ti verrà quasi voglia di comprare un raccoglitore colorato pieno di cartelline e farlo diventare un esercizio zen.
  • Superato il pranzo comincio l’ispezione delle geometrie di casa, ripasso gli angoli e individuo punti che non mi piacciono. Prendo il metro in mano e misuro i mobili, fino a che nella testa non sento un click e allora parto con il tetris. Ti giuro che non so da dove tiro fuori così tanta forza da riuscire a spostare gli armadi a muro, ma devo dire che ci riesco. Ho l’abbonamento dall’osteopata ma ci riesco. Questo qui posso dirti che si tratta di un vecchio vizio, anche a 6 anni, quando non dormivo, mi alzavo di notte e spostavo il letto. Per molti anni ho pensato di avere qualche problema (grazie al cielo ne ho ancora e me li tengo stretti) ma poi ho scoperto che questa cosa si chiama Feng Shui, chiedi a Google se non mi credi. L’idea è che in qualche modo muovi le energie, non so quali e non so perché, ma siccome la casa è una cosa così importante che metà dei nostri sogni ce l’hanno sempre come protagonista, evidentemente se sposti il comodino a destra invece che a sinistra, è un po’ come prendere a gomitate la tua saudade e farle capire meglio chi comanda.
  • A questo punto della giornata, senza avere mai spento la musica, mi ritrovo davanti un paesaggio un po’ cambiato, anche solo un angolino piccolo piccolo che però adesso è diverso. La musica continua a suonare alta e ormai ho messo al collo tutto l’oro che ho trovato in casa. Il tramonto è vicino e allora, siccome non ho niente per cui brindare, brindo al niente come se niente fosse. Ma lo faccio al tramonto, come un rituale. Mi siedo sul primo gradino del mio giardino e aspetto che il sole cambi colore, per ricordarmi che, se anche domani non è un altro giorno ma soltanto un altro uguale uguale a questo, io comunque non sarò mai senza risorse. Avrò sempre con me le mie orecchie, la mie braccia e i miei occhi, occhiali da sole compresi, per vedere meglio come anche il giorno peggiore non è mai il peggiore se solo provi a volergli bene invece che a litigarci.

Ah sì, poi c’è un’altra cosa che faccio quando la vita mi fa un po’ maluccio, mi siedo qua davanti e scrivo. E provo a trasformare un niente in qualcosa che abbia un po’ di senso, il grande caos in un piccolo logos, il male di vivere in una lotta attiva contro le tenebre, a colpi di basso e a colpi di martello.

Allora facciamo così, mio caro e malinconico amico, tu accendi le casse e io vado a prendere le birre e le metto in fresco. Oggi basta combattere, oggi siamo stati bravissimi e ci siamo arresi ma col sorriso.