Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

Psicobiografie #3 Bruno Bettelheim

A questo giro ho pescato uno psi molto controverso, sulla cui vita esiste un mistero.

Se volete potete immaginare la voce della Leosini

Bruno Bettelheim (bettelaim) nasce a Vienna nel 1903, muore suicida a 87 anni. Di più, muore suicida dopo aver passato una nottata a bere whiskey e prendere medicine, asfissiandosi da solo con un sacchetto di plastica. Ebbene sì.

Su questa morte esistono varie versioni: qualcuno pensa fosse stremato dalle condizioni fisiche sommate alla scomparsa della moglie solo qualche mese prima, altri sostengono che nel gesto ci fosse una somiglianza con il suicidio di Primo Levi, circostanza a sua volta non così incontrovertibile. Di simile avevano di sicuro la disgrazia di essere rinchiusi nei campi di concentramento. Bruno nel ’38 passò un anno tra Duchau e Buchenwald, nel ’39 venne rilasciato sempre in circostanze non del tutto conosciute. Una volta libero riuscì a partire per l’America e ci rimase per tutta la vita.

Insegna Psicologia a Chicago per trent’anni, mentre lavora anche alla Orthogenic School, un istituto per bambini e ragazzi con disturbi autistici. Sarà proprio l’autismo l’argomento a cui dedicherà tutta la sua carriera, insieme allo studio in generale dell’età evolutiva. Nel ’67 pubblica il libro La fortezza vuota che diventa un caso editoriale. Espone la sua teoria sulla causa dell’autismo introducendo il nome di “madre-frigorifero”, ossia la strega maledetta che possiede ogni colpa. Il bambino si raggomitola su sé stesso lì dove trova un ambiente senza amore e quindi per migliorare deve essere allontanato dalla madrefrigo e fatto crescere in un ambiente confortevole e senza nessun regola particolare, tranne quella di non averne. I bambini dovevano crescere liberi da ogni forma di autorità genitoriale. Certo viene in mente che dopo l’esperienza dei campi di concentramento, i criteri di libertà non devono essere stati semplici da ritrovare, ma il punto misterioso non è tanto questo.

Nel ’97, sette anni dopo la sua morte, viene ne viene pubblicata una biografia di 500 pagine con il titolo “The creation of Dr. B” scritta da Richard Pollack. In questo librone vengono descritti crimini scellerati da parte di Bettelheim. Tanto per cominciare pare non si fosse mai laureato in Psicologia, non avesse mai e poi mai incontrato Freud nei circoli di Vienna, cosa che amava raccontare e addirittura non si era proprio occupato di autismo prima di arrivare in America, tranne una sola esperienza avuta con una ragazza di nome Patsy, che era stata affidata a lui e alla prima moglie e a quanto pare non fosse nemmeno autistica. Insomma ecco che Dr. B sembra diventare un mitomane di calibro. Secondo Pollack era stato tutto possibile nel momento della fuga in America dove il dottore aveva potuto reinventarsi un’identità senza il rischio di essere smentito. Nel libro si dicono cose anche molto più pesanti, cioè che l’apparente libertà offerta nell’istituto fosse in realtà molto spesso sostituita con un clima di violenze corporali forse anche sessuali e ancora che quasi nessuno dei ricoverati fosse di fatto autistico, ma si trattasse di persone con problemi comportamentali e di regolazione delle emozioni che miglioravano ma certo non si poteva gridare al miracolo della cura dall’autismo.

Sempre secondo l’autore la mitomania avvenne anche perché B era lui stesso stato dotato di una madrefrigo che, alla morte del padre, lo torturò con tanto silenzio e poco amore e anche perché era frustrato nella carriera, aveva scelto male e si era laureato con 12 anni di ritardo. Era dotato anche di un ammaliante uso del linguaggio e sapeva scrivere in maniera convincente, cose che lo aiutarono a rendersi credibile. Per sparare queste cartucce ci furono prima varie interviste alle persone che lo conoscevano, da cui l’unica verità su cui pare ci fosse accordo, era che sicuramente non era una persona a cui potevi credere su tutto e a cui piaceva romanzare le cose.

Bisogna anche dire che Richard Pollock aveva avuto un fratello internato nell’istituto, morto in un incidente misterioso. Pare che il Dr B avesse accusato tutta la famiglia di essere colpevole, dicendo che si era trattato di un suicidio. ORA, non credo di essere maliziosa nell’intravedere come un’ombretta di questione personale non ben risolta, dietro alla briga di 500 pagine. Ma si sa che spesso la verità è una bilancia che fatica ad assestarsi.

Forse è semplicemente stata una di quelle persone pazze in modo lucido, magari consapevole, magari di meno, che prese dalla loro visione hanno tirato castelli, o fortezze, di sabbia, che per un po’ sono andate bene finché qualcun altro non è arrivato a costruire con i mattoni.

Lo stesso giorno in cui lo trovarono morto in edicola usciva il Time con una copertina dedicata al servizio sul diritto alla morte. Ebbe tre figli con cui lui proprio lui che si era dato così da fare per la questione filiale, proprio non riuscì mai ad andare d’accordo.

Curiosità: compare nei panni di sé stesso nel film Zelig di Woody Allen, in cui il protagonista è proprio un uomo capace di prendere le sembianze di chiunque.

Eh sì, certe vite sono un po’ più strane di altre.

Olimpia

Psicobiografie #2 Carl Withaker

Sono stata contenta quando dal mazzo è venuto fuori proprio Withaker (uìtaker) perché è tra quelli considerati più pazzerelli e originali di altri. Nasce nella cittadina di Raymondville, nello stato di New York.

Viene da una famiglia numerosa e rurale, provenienza che gli rimarrà a lungo addosso, quella del topo di campagna. Infatti dirà di essersi sentito schizofrenico per tutto il liceo e aver passato circa 15 anni cercando di capire come adattarsi a una struttura sociale, dopo aver vissuto i primi 15 nella propria fantasia. Ed è proprio in materia di schizofrenia che gli partì quello che chiamerò Il ciavattone, o comunque la grande intuizione. Dopo aver studiato Ginecologia e Ostetricia, nel ’38 decide di studiare Psicologia e inizia a lavorare con gli schizo, rendendosi conto che i poverini qualche miglioramento in clinica lo portavano pure, ma poi tornavano a casa e ricadevano miseramente. Grazie a questa intuizione e al clima di importanza della famiglia che si cominciava a respirare in quegli anni tra gli psi, che Carletto diverrà noto con il nome di terapeuta della famiglia. Per lui il cliente è proprio tutta la famiglia, e non solo i genitori, ma tutta quella che si poteva invitare, si invitava. Nonni, fidanzati, vicini e se non ricordo male una volta fece addirittura portare in studio una teca con dentro il pitone di qualcuno, perché pure sto pitone aveva il suo ruolo all’interno del sistema. (Davvero non mi ricordo se è vero o no, ma nella mia testa è diventata una nozione e comunque rende l’idea).

Withaker è per me noto come il terapeuta da mic drops, infatti a lui sono riferite una serie di considerazioni ed episodi degni del miglior rapper. Ivi a breve ne elencheremo qualcuno.

Il nostro è diventato conosciuto per appunto questa storia della famiglia allargata, molto allargata e per l’uso della figura del co-terapeuta, ossia un collega con cui portare avanti la terapia. Questa scelta ho trovato potrebbe avere due diverse origini. Da una parte ho trovato che lo riprese dalla modalità utilizzata come consulente per i dipendenti di una centrale nucleare, durante la Seconda Guerra Mondiale in cui bisognava concentrare le forze e ridurre il tempo, da un’altra parte ho trovato che invece viene dall’esperienza personale di solitudine e di come aver fatto amicizia con due compagni di liceo, lo abbia davvero aiutato nel suo benessere. In un’altra intervista ancora ho trovato un suo commento su quanto alla fine sia meglio fare la Psicoterapia in compagnia perché da soli è troppo faticoso. E vorrei vedere chiunque ad arbitrare tutta una squadra di calcetto più il pitone, da solo.

La sua terapia viene chiamata anche Terapia dell’Assurdo, nel senso che faceva largo uso di sé stesso più che di vere e proprie tecniche, utilizzando la creatività come risorsa. Credeva nella logica emotiva delle cose più che in quella cognitiva e uno che fu un suo collaboratore per vent’anni disse che Cercare di dare giudizi su Withaker con il lato sinistro del cervello (quello non deputato alla creatività) è come cercare di fare l’analisi grammaticale di Joyce. Secondo questa logica fece varie cose appunto da mic drop, tra cui: mettere al tappeto un bambino per dimostrare che poteva stare calmo, addormentarsi durante una seduta per trasmettere il senso di divertimento che provava, cacciato via una coppia in cui ognuno aveva un amante, dicendo che avevano già ognuno il suo psicoterapeuta e che non gli piaceva l’infedeltà, minacciato di morte da un utente della comunità psichiatrica gli rispose che meno male così aveva un’altra scusa valida per farsela sotto già che gli capitava comunque per via della sua timidezza.

Eppure se i sui interventi funzionavano non sarà stato certo per questi interventi da mattatore, o comunque non solo. Immagino, come in tutte le cose, che una grande dose di passione e dedicazione, anche in questo essere così fuori dagli schemi. Per esempio diventato direttore del dipartimento di Psichiatria, faceva fare ai tirocinanti una terapia di gruppo di prova, in cui tutti i lunedì dalle 9 alle 10, si stava in silenzio. Punto. E tenne un gruppo di scrittura, per quasi 8 anni, con 4 colleghi, riunendosi ogni giovedì dalle 9 alle 12.

Sosteneva che l’obiettivo di ogni famiglia fosse quello di liberarsi dal passato e dal futuro, per tornare a essere. Non dava mai consigli perché pensava avrebbero ostacolato la crescita, perché ogni persona aveva le risorse necessarie per portare a termine il viaggio e che i membri di una famiglia hanno bisogno di sentire la disperazione prima di poter cambiare. Il malessere era spesso tutta una causa della difficile mediazione relazionale a cui siamo condannati in quanto persone. Malessere frequentissimo nelle famiglie e, ovviamente, nel matrimonio. Argomento su cui fece enorme spirito sostenendo cose sagacissime tipo Se non sopportate la solitudine, non sposatevi.

Scrisse varie cose, tra cui Il crogiolo della famiglia che vendette 100mila copie. A me però ne è sempre stato a cuore un altro che si chiama Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, scritto verso gli 80 anni. Ci sono vari spunti molto saggi, molti riferimenti alla sua vita con tanto di foto illustrative, indicazioni per i giovani terapeuti, ha un titolo molto fico e contiene questa ouverture notevole: “Questo non è un manuale di istruzioni e non sono neanche sicuro che sia il manuale di quello che io ho fatto. Il problema è che dubitando di me stesso non mi fido neppure dei miei pensieri. Forse nel loro insieme queste considerazioni sono solo il racconto fantasioso di come sono riuscito a sopravvivere”.

P.S. In pensione tornò a vivere in una casa di campagna simile a quella in cui era nato con Muriel, sua moglie da cui aveva avuto 6 figli. Lui e Muriel avevano inventato un gioco, il ping-pong senza punteggio. Avevano deciso fosse la cosa giusta da fare per divertirsi un po’, senza dovere stare lì a tracciare confini di supremazia della loro storia.

Ecco Carl versione santino, non ho trovato di meglio, nelle altre aveva un doppio mento pazzesco e non mi è sembrato gentile.

Psicobiografie #1 Steve De Shazer

Raccomandazioni generali: la presente, sintetica descrizione dell’uomo non serva a sperimentare quelli che possono sembrare facili trucchi da soli in casa. Tutto ciò che sembra molto semplice è frutto di anni di studio e forti idee, le cui fondamenta possono essere ammirate o criticate, l’importante è non correre mai con le forbici in mano, ma prenderne spunto per libere riflessioni.

Che razza di vita sarebbe se me ne restassi a casa seduto tutto il giorno?” Così disse il protagonista della storia di oggi, pochi giorni prima di morire mentre si trovava a Vienna per un ciclo di conferenze.

Steve De Shazer (Stiv DeSceiser) nasce in Milwaukee, nello stato del Wisconsin (quanto mi piace dire Uisconsin) da padre ingegnere elettrico e madre cantante d’opera. Prima di diventare psico, si lancia nel mondo dell’arte e della musica, diventando pure un sassofonista pro. Di lui si dice pure fosse molto interessato alla cucina, io dico che è perché è uno di quei pochi momenti in cui noi psi proviamo gusto nello stare zitti e possiamo creare un buon risultato, ma insomma questo lo dico io, alla fine chissà perché, ma soprattutto perché no.

In questo clima di domandarsi è lecito, rispondere non sempre, entriamo a bomba in quella che sarà la sua creatura, la Terapia centrata sulla soluzione, di cui fu fondatore insieme alla moglie, psi pure lei, Insoo Kim Berg (di origini coreane, direi Insu kim berg), nel 1978.

Insomma a 38 anni suoi e qualcuno in più della moglie che era più grande, decidono insieme che basta con questo rivoltarsi a doppia panatura nella ricerca delle cause, piuttosto costruiamo una soluzione.

Qui vedo anche qualche profano infilarsi le mani tra i capelli e gridare all’eresia. Infatti come possiamo credere nella buona riuscita di una terapia che per definizione attacca il nocciolone duro di tutte le terapie. Su questo, da agnostica quale, sono, lascio a ognuno la libertà di interrogarsi a modo suo.

Io penso che fu in buona parte l’incontro con il ragionar del Mental Research Institute, luogo di Palo Alto che andava alla grandissima dagli anni ’60, luogo di cui riparleremo in riferimento ai vari psi che lì dentro hanno lavorato, luogo che la vostra Olimpia ha visitato nell’anno della sua laurea e scoperto trattarsi di una piccola casetta con fiorellini all’ingresso. Questo solo per fare la figura della giramondo, of course, e per dirvi che molto del progresso pare accadere non tra i blocchi di cemento delle enormi città, ma lì dove le strade sono piccole e i tetti bassi. Fu che ognuno sceglie ciò in cui preferisce credere e in alcuni casi lo porta avanti tutta la vita, ispirato dal sacro fuoco della giustezza. Forse è stato una sorta di folie à deux condivisa con la psicomoglie, forse il movimento degli Yuppies del decennio successivo che ci voleva tutti rampanti e presi a bene nel realizzare noi stessi, forse il non troppo vecchio ma legittimo emendamento americano nel diritto alla felicità. Davvero non possiamo saperlo e come direbbe Wittengstein (molto caro peraltro anche a Steve), di ciò di cui non si può parlare, è mejo stasse zitti.

Quindi torniamo ai fatti, l’obiettivo di Steve e Insoo era tutto centrato sulla costruzione di una soluzione al problema, senza pensare al problema o meglio pensando a come in altre occasioni la persona con quel problema lo avesse già risolto e a cose di buono sapesse fare quella persona. Ma per dirla meglio, per loro era importante andare sempre a caccia delle eccezioni e cercare di partire da quelle per costruire un futuro meno problematico. Per dire, a chi soffrisse di una terribile timidezza generalizzata, individuare se ci fosse un contesto in cui non si presentasse e cominciare a sbandolare da lì. O per fare un esempio più harderello, chiedere a qualcuno che si mostra meditabondo sul togliersi la vita, “Come mai ancora non l’hai fatto? Cosa ti ha trattenuto?” a una persona molto depressa “Come fai a portare avanti le tue giornate dal momento che non ci vedi alcuna speranza?” Ora detta così può sembrare molto banale, dal vivo è una questione diversa, non priva di insidie. Si può però certo dire che sia sofisticatamente semplice, questo sì. Per i curiosoni, online si trovano le 100 domande più gettonate dalla Terapia centrata sulla soluzione, con relativa spiegazione. Giusto per farvi vedere come quando una cosa un po’ funziona, i discepoli cercano sempre di costruirci sopra un Vangelo.

Tra le cose usate da Steve ce n’è una, anzi due che trovo molto carine. La prima è la così chiamata “Miracle question” che recita più o meno così: Metti che stanotte succede un miracolo e che una grande bacchetta magica ha risolto il tuo problema durante la notte. Ti svegli e da quale piccolo indizio ti accorgi che il tuo problema non c’è più?” A cui penso la maggior parte di noi risponderebbe “dal fatto che non mi sento sto cazzo di peso sul cuore che mi fa svegliare come se fossi la reincarnazione di Cesare Pavese”, giusto? E qui Steve avrebbe incalzato cercando di farci formulare una risposta più semplice, del tipo mi accorgerei che non ho più il peso sul cuore perché non rimando più la sveglia ma mi alzo a farmi un caffè. Ed ecco che si comincia a costruire questo quadro di noi che stiamo meglio e con piccole cose molto concrete proviamo a trasportare questo quadro immaginario, nella bieca realtà e ci ritroviamo a farci il caffè, con magari sottofondo di podcast poesie di Pavese, ma comunque in piedi.

Altra cosa che trovo carina è la fase dei complimenti, sì esatto, i ohhh ammazza che bravo che sei stato a farti il caffè questa mattina! Che venivano dispensati dopo una piccola pausa che lo psi si prendeva a metà seduta. Sempre secondo me perché magari pure lui sentiva il bisogno di farsi un caffè, buttarci in mezzo una sigaretta, prendere prospettiva come quando una parola non ci viene subito in mente e dobbiamo stare un momento in silenzio per capire la parola che volevamo dire.

Poi troviamo le scale, usate per monitorare l’andamento della terapia e, di nuovo, per costruire insieme alla persona in problemi, un cono di luce sul prossimo passo da compiere per arrivare a quella che lui considera la prossima tappa e così fino alla tappa 10, in cui si suppone che vada tutto come vorremmo.

Enumerando la questione (enumerare è importante per ricordarsi le cose e far sembrare che stai tenendo il punto), i presupposti della terapia creata da Steve e coniuge, sarebbero grossomodo che:

Le persone devono voler cambiare

Le persone sono le più esperte e devono sviluppare i propri obiettivi

Le persone hanno già tutte le risorse e le forze a disposizione per risolvere i loro problemi

La terapia deve esse breve

E deve esse focalizzata sul futuro

Chiaro?

A questo punto uno si immagina il nostro Steve come un simpatico mattacchione dedito al consumo di the verde e prodigo di sorrisi. Invece manco pe niente. O almeno così ho sentito raccontare in un’intervista a tal Louis Cauffmann, psicologo belga che ce lo ebbe come maestro. Pare fosse un tipo piuttosto taciturno, la cui espressione preferita fosse “mmm”, mentre teneva le gambe accavallate e nella mia testa diventa subito Sherlock Holmes. Louis racconta che una volta gli fece un intervento su un suo intervento in seduta, tirando in ballo tutta la teoria sistemica, la società, l’astrologia orientale e occidentale, finché Steve non lo guardò e gli disse “Louis tu ci pensi troppo, prossima domanda”.

A Steve piaceva controllare quello che si può controllare, gli piaceva dire cose come “Il punto da cui guardi le cose determina ciò che puoi vedere e ciò che non puoi vedere. Un cambiamento di prospettiva è tutto ciò che ci serve per cominciare a cambiare”, a Steve piaceva lavorare, gli piaceva sua moglie e si direbbe fosse ben ricambiato, dal momento che la poverina è morta solo qualche mese dopo il marito, e si sa come funzionano queste cose, a Steve piaceva il linguaggio, nelle sue risorse che creano mondi, chissà che non sia per questo che è morto proprio a Vienna, lì dove il filosofo era nato.

Bene, per oggi abbiamo terminato anche se in realtà abbiamo solo aperto una pagina, delle moltissime che si possono aprire per guardarci meglio dentro. Stanotte però magari provate a farvela quella domanda miracolosa, potrebbe sempre muovervi qualcosa di stimolante. Nel frattempo che i pensieri si muovono, vado a mettere su il caffè e chissà che non muova qualcosa anche a me, mentre ci penso, tra una luna e un falò.

Olimpia Parboni Arquati