Ciao Olimpia,
per me sei un po’ come un’amica a cui chiedere un abbraccio quando ti manca il fiato e oggi che sono particolarmente triste, dovevo scriverti.
Da qualche mese non sto bene, soffro di ansia e depressione per una roba che la mia psicologa chiama dipendenza affettiva. Un dolore enorme che prende a braccetto la paura e la vita di ogni giorno che fino a poco fa tutto sommato non era accia, ora è un’agonia sfiancante. Il punto però non sono solo io, il punto è la relazione tra me e il mondo intorno. Il punto cara Olimpia è che il pianeta non sa che spesso la depressione non è una condizione fine a se stessa, vuol dire tutto e non vuol dire nulla, se non indagata. Dentro però c’è tanto. Tanto vuoto, tanto dolore, tanta vita irrisolta. Nessun depresso con attacchi di panico si impegna affinché lo sia e questo alle persone sembra sfuggire. Sto male perché sto capendo per la prima volta in 31 anni che altro non siamo che individui profondamente soli, dopo una lunghissima storia sto facendo i conti con il concetto di appartenenza, l’amore infinito della mia vita non è più mio e non lo sarà più, il mio cuore è in cenere, sto cercando di perdonare i miei genitori per i tanti errori che mi hanno resa così disfunzionale nei rapporti e soffro infinitamente perché vorrei un abbraccio caldo e trovo invece intorno a me tanto scetticismo, incomprensione e giudizio. La mia migliore amica mi dice “devi distrarti”, “fai sport”, “amati!”. Mia madre “Devi ringraziare per ciò che hai”. Ed è frustrante perché la mia vita ha perso tutto il suo valore e le persone mi offrono come soluzione, proprio la causa dei miei dolori. O come hai scritto te “come se volersi bene fosse un punto di partenza e non la condizione di arrivo“. Non voglio dilungarmi, vorrei solo confessare a te e dire al mondo che fa male. Che forse dovremmo esserci e basta. Non giudicare. Non pretendere di capire. Che non siamo tutti uguali e che dispensare stizziti ovvietà non è una risorsa, ma anzi può lentamente logorare.
Chissà te che ne pensi Olimpia, io nel mentre continuo a cercare risposte.
Ti stringo forte.
N.
Carissima N., adesso ti deluderò. Sì perché per volersi bene sul serio prima bisogna correre il rischio di deludersi, così tutto quello che rimane è più plausibilmente reale. E ti deluderò perché anche io, come tutta quella gente che ti dice le ovvietà, te ne dirò qualcuna. Cominciamo dalla fine: le risposte a che cosa? Come mai quando una storia d’amore importante finisce sembra di vivere negli incubi? Come mai i tuoi genitori non sono stati capaci di fare meno errori e renderti meno sbagliata di quanto ti senti? Come mai forse nemmeno a loro è toccato un buon modello e quindi fanno quello che per loro è la sola cosa giusta da fare? Come mai spesso gli amici ci sono per le cazzate e per le cose che ti riguardano sembra abbiano sempre di meglio da fare o da di dire? Qual è la tua domanda? Quando finisce la tristezza, quando finisce la rabbia, quando finisce tutto quanto così puoi dormire almeno una notte intera? Quanto bisogna forzarsi quando si è tristi di lavarsi i denti e di mangiare comunque la frutta?
Adesso ti faccio quelle che per me sarebbero importanti: quanto te ne stai approfittando nel dare la responsabilità a tutti tranne che anche a te? Quanto hai paura che questa sia una condanna e non una fase? Quanto hai paura della solitudine? Quanto hai paura di te stessa? Quando eri così innamorata, eri veramente così innamorata o questa storia ti faceva galleggiare su una patina sottile che non ha mai nascosto alcuni impegni con la vita che forse hai sempre trascurato e ora sono tutti esplosi tutti quanti insieme e quindi più che ritrovare il senso ti tocca affrontare il fatto che quel senso lo hai sempre scansato? Quanto sei stata bravissima a capire che di questo tema penso tante cose perché mi ci sono fatta qualche girone anch’io? Quanto posso dirti che mi dispiace tantissimo ma che mi sarebbe dispiaciuto molto di più saperti a non provare a ragionare mai su questioni che ti tormentano da sempre.
Il dolore fa male e nessuno si dovrebbe permettere di dire il contrario, ma le pacche sulle spalle, la pietà negli occhi, il darsi addosso e il dare addosso al mondo, fanno anche più male. La comprensione di certi momenti è un cammino solitario perché la materia è intima, la tragicità di certi momenti è totale perché l’impegno è stato totale e non si può avere un rinculo minore del culo che ci siamo fatti in una storia. Uscire troppo presto dall’abisso sarebbe dimenticare, dimenticare non è concesso come punto di ingresso ma come processo (grandissimo mazzo esagonale) in cui metti in in discussione ogni cosa quindi senti di averle perse tutte. E te persa insieme a loro, persa per sempre, triste per sempre.
Quanto è giusto parlare di depressione dopo la fine di un amore e non è più giusto parlare di fine dell’amore come giustificazione sufficiente per non alzarsi sempre a mille e per fottersene della frutta? Quanto è giusto parlare di dipendenza emotiva quando si sta vivendo un lutto? Quanto altro dobbiamo lasciare che le persone piangano i loro morti prima di concedere loro di poter piangere senza dover rompere loro il cazzo e quanto è giusto rompere il cazzo affinché quella persona a cui vogliamo bene si stacchi dalla crisalide e vada farsi il giro del palazzo? Quanto mi sono spaventata quando m’è preso er panico mentre facevo la spesa e sono dovuta uscire a gomitate? Quanto è necessario combattere il dolore degli altri e il dolore che sentiamo, anche se spesso è come dicono, proprio come dicono, che il tempo annacqua i pensieri, che il tempo annacqua i dolori?
Quanto mi credi se ti dico che passerà anche se ti permetti di stare così senza dimenticarti del perché stai così, prendendo seriamente al parola depressione ma pensando pure che uno, a un certo punto, pure alla depressione le può dire ao bella mia se semo visti? Perché secondo me tu sei una che ce la fa a fare quello che gli altri con te non stanno sapendo fare, a mettersi nel punto di osservazione giusto, anche se tira vento e si sta scomodi, per guardarti tutta quanta, nella tragedia più che nella depressione, nella gloria del tentativo più che nella disperazione della condanna. Sì, secondo me sei una che ce la fa, anzi, che ce la farà, che forse ce la sta anche già facendo ma che non vuole ancora dimenticare.
Non lo so se siamo soli, non penso, non tutto il tempo. Quello che penso è che ognuno di noi ha dei tempi riservati all’esplorazione del proprio abisso e, laggiù, c’è spazio soltanto per una persona, perché la tristezza, come la felicità, è un luogo strettamente personale in cui nessuno tranne che noi da soli potrà mai usare i nostri occhi per guardarci dentro. Non lo so se siamo soli, però so che siamo unici.
Ti abbraccio forte forte pure io, come mi ha insegnato a fare una mia amica perché io non ero tipo e lei ha deciso che doveva insistere e volte gli amici devono farlo.
Niente passeggiate, niente stronzate, sono d’accordo, però te lo ricordi che buono che è l’odore dei gelsomini nelle sere dell’estate?
Olimpia
P.S. l’immagine è la Fossa delle Marianne perché sono appassionata di racconti di persone che hanno fatto cose strane, tipo andare negli abissi e, negli abissi, anche negli abissi, ci sono tante cose.