Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

“Dedicato a tutti quelli che stanno scappando”

La frase che ho digitato su Google e che mi ha portato al tuo sito è stata: “se mi sono rotta le palle di tutto“.

Mi chiamo A., ho 49 anni e sono una Romana de Roma. Ma per raccontare un po’ di me inizio dalla fine, cioè da come mi sento negli ultimi anni.

Ogni giorno mi sveglio con una frase in testa “prima o poi finirà”. Mi riferisco a:

1) il mio lavoro, da impiegata statale presso un ufficio giudiziario… non di Roma, ma di Firenze. Il prossimo che mi dice: “bella Firenze, una città a misura d’uomo, i fiorentini sono simpatici!” gli sputo in un occhio. Odio la città e chi ci abita, non li sopporto più. Cambio anche canale se ne parlano in TV o alla radio. Però mi potrei dire: “va bene, dai, ma che ti frega“. Dopo aver passato la giornata davanti ad un PC, in un ambiente demotivato, dove non hai stimoli, dove dopo 26 anni dovessi scrivere un CV non saprei che razza di competenze indicare come acquisite, dopo aver fatto Fantozzi davanti al lettore badge, te ne torni a casa tranquilla! No. E passo al punto 2);

2) Non riesco nemmeno a dire: “vado a casa“. dico: “vado su“, perché non mi  sento a casa.

Divorziata per decisione mia (su questo ci vorrebbe una lettera a parte), convivo con un nuovo compagno che ha solo due difetti: due figli, di 12 e 15 anni che con me non hanno nessun problema. Sono io ad averne che, da convinta “childfree”, non sopporto la loro presenza che la vivo come un’invasione del mio spazio. Io non pretendo che non ci siano, per carità, ma non viene capito nemmeno il perché io me ne vada i weekend che toccano a lui: non mi sembra difficile da capire. Non ho voluto e non voglio la famigliola e tutte le rotture connesse e quindi mi levo dalle scatole. Mica ti dico di non starci! Stacci, ma non pretendere da me altrettanto! In poche parole io non mi sento a casa da NESSUNA parte, ho bisogno di trovare il mio posto. 

Ci sono tantissime altre sensazioni di merda che ho addosso provocate dal divorzio, dal mio gatto che non c’è più, dai sensi di colpa, dal sapere di aver deluso, dall’insoddisfazione, dal non vedere luce, dall’aver sopportato dei sacrifici enormi, dal non avere una vita mia. Mi sembra sempre di stare ad aspettare i cazzi degli altri e a vedere la mia vita scorrere. In attesa di che???? Il risultato è che sono ARRABBIATA fissa. Proprio perché non mi riconosco più in questo stato d’animo (ho fatto e faccio anche cose belle: ho viaggiato tantissimo, non vado più in palestra, ma mi alleno da sola perché amo il movimento, mi piace studiare le lingue, la storia e l’arte) sono stanca di esserlo perché sfinisce. Non avere un posto mio, mi fa stare perennemente male. Ultimamente ho iniziato ad imprecare a voce alta, quando sto da sola, dico parolacce, sbatto le cose. 

Sto scrivendo, forse, con la speranza di sentirmi dire una cosa diversa da “non hai pazienza, i posti di lavoro sono tutti così, di che ti lamenti, stai a Firenze, mica stai in capo al mondo, i ragazzi crescono“. Tutte scelte che ho fatto io eh, sia ben chiaro, ma se accenno ad un cambiamento… TRAGEDIA! Sei matta a lasciare un posto fisso! Sei matta a tornare e poi stai da sola, lontana da G.! Non lo so, ma penso di poter sopravvivere. 

Non so se mai mi risponderai anche perché non so nemmeno cosa ci sia da rispondere, però continuerò a seguirti sul suo blog perché mi diverto!

Tanti cari saluti e… sempre forza Roma!

PS il mio compagno è pure Laziale… e nun c’ho pazienza! Mah.

A.

Cara la mia romana de Roma, partiamo dalla fine. Io non so tifosa però so cresciuta a Testaccio e quindi sento l’obbligo morale, quindi sì, forza Roma. E proprio dalla fine partirei anche con la versione seria sul quesito che ti poni: ma che ce stai a fa co’ uno della Lazio? Che c’hai da sconta’? Che hai fatto che te stai a puni’ così tanto?

Il titolo che mi è venuto in mente è la dedica di un film di Salvatores, Mediterraneo, che se per caso non avessi visto, te lo consiglio perché è molto bello. Ma la verità è che il quesito che tu ti poni penso sia la domanda più preziosa con cui abbiamo a che fare, ossia “NDO CAZZO STA CASA MIA”. Insieme a questo ne poni un altro, altrettanto sacro, la domanda da un bilione di anni, è più coraggioso chi se ne va o chi rimane?”. Quel tipo di domanda su cui si è costruita l’umanità: annamo a vive in città invece che in campagna? Dipingemo le mucche sui muri oppure annamo a caccia’? Lo lascio o non lo lascio, essere o non essere, mettere radici con i figli o viaggiare sempre, allontanarsi dai genitori o prendersi cura di loro, uscire o stare a casa, soffrire o fare finta di no, lasciarsi andare oppure no, aprire un baretto del cazzo in Messico e continuare a timbrare il cartellino. Insomma mo’ non so se è un delirio estivo, però mia cara te giuro che me pare tipo LA DOMANDA. Solo per questo penso manchi LA RISPOSTA. Perché non ce ne sta una ma mezzo milione.

Ricordo in ordine sparso: mia madre che negli anni 90 si fa fare una t shirt da un’amica con su scritto “M’avete stufato tutti quanti“, la prima volta che vidi Un giorno di ordinaria follia con Michael Douglas e quando lui si alza dalla macchina io mi alzo dal divano e batto le mani, la prima volta che capii che i barboni schizofrenici a modo loro dicono tante verità quando se la prendono con tutti, i film di fuga dalle prigioni TUTTI QUANTI, Riusciranno i nostri eroi co’ Alberto Sordi, la prima scena, l’ultima ma pure quelle in mezzo, il conte di Montecristo che ci mette mi pare un ventennio a capire come uscire e vendicarsi, la prima volta che sentii parlare delle feste di divorzio. Questa lista a casaccio per dirti ancora quanto penso tu porti con te la chiave di una vita nuova, sia che tu rimanga sia che tu non lo faccia. Se rimani però serve capire il senso profondo del tuo sacrificio, paura della solitudine (ce l’avemo tutti), paura di tornare a casa, paura di ricominciare (sicura? l’hai già fatto una volta e santo cielo non sarà stato facile ma eri sempre tu), paura che sia troppo tardi perché si vabbè la vita comincia 50 anni solo sui libri di auto aiuto.

La rabbia è l’unica emozione corretta quando sentiamo di non essere ascoltati e sentiamo le ingiustizie, nel senso che è allo stesso tempo una risposta sana e una risposta demmerda perché poi si espande a macchia d’olio e qualsiasi mondo (i fiorentini che conosco so tanto carucci giuro però certo è una città ingombrante da un punto di vista di identità, esattamente come la nostra) finisce per sembrare ostile. Si espande sulle cose più piccole, finisce l’insalata che ci piace al supermercato e ci pare di essere perseguitati dal destino, sbatti il mignolo del piede sulla porta e ti viene voglia di abbattere tutta la casa, ti ritrovi i nodi nei capelli sotto la doccia e ti viene da piangere e piangi come dice De Andrè sotto la doccia, perché uno rimane arrabbiato solo perché quando si concede di non esserlo, sente dentro un oceano così grande, ma così grande che non esiste una diga che lo contenga, e allora se lo tiene e la marea cresce ogni giorno, regalandoci qualche tsunami come forse quello di quel giorno che hai detto a Google che non ce la stavi a fa più.

Sai di cosa sarei curiosa, di sapere chi è che dice TRAGEDIA, chi è che ti dice che ma ndo vai? Se sei anche tu che lo dici certo è un conto, se sono gli altri, i cari, quelli che ti conoscono, che ti vogliono bene, che tifano per te ma che non sono te, beh, non sono te. E queste, “signora mia” sono cose che in fondo uno può negoziare solamente con se stesso.

Sai che potresti fa, oltre a pensare che la parola coraggio viene da cuore (quando si dice ascolta il tuo cuore e tutte quelle fregnacce) compiere un piccolo grande atto di fuga e ribellione e vedere come ti trovi, se ti senti a casa nel dire no grazie non ci sono quei giorni sono in un rifugio benedettino in val di boh. Casa dicono è dove sta il cuore, non ho mai capito cosa si intenda, credo i cari che amiamo, però l’amore non basta e quindi la cosa si complica. Quello che so è che ogni volta che ho chiamato qualcosa o qualcuno casa, l’ho sentito quando ci sono entrata e mai prima.

Ti piace quello che vedi dalla finestra la mattina quando ti alzi, ti piace quella luce, quello che vedi? Ti auguro di ritrovarla la casa, nel frattempo come i paguri, la casetta un po’ ce la portiamo dentro, pure questa è na banalità, però una de quelle che me fanno sempre piagne.

Una delle mie canzoni preferite da ragazzetta era la storia di questa tipa che mollava tutto, vendeva tutto, se metteva in macchina da sola con la musica e se n’annava senza guardare nello specchietto. Quindi scusa se forse ci ho messo troppo del mio, però credo davvero che tu sia tutti noi.

L’ipocondria è l’unica malattia che non ho

Ciao Olimpia,

prima di ogni cosa vorrei ringraziarti di cuore per la tua pazienza nel leggere tutte le lunghe righe che seguono, e che provano a parlare di me. Ora provo a presentarmi: ho ventisei anni, sono magra e un po’ bassina (chissene frega, dirai). Il fatto è che con tutto il peso che sento spingermi da sopra, proprio sulle spalle, in questo ultimo ma lungo periodo, mi sembra di esserlo ancora di più. Talmente tanto peso su di loro che da tempo, quando me ne accorgo, sono tese, alte quasi fino al mento (giuro però che il collo ce l’ho, eh) e rigide come a dover sopportare proprio un grande masso, e il mal di schiena annesso.
Beh periodo, dicevo, particolare. Non saprei definirlo con un altro aggettivo per non risultare la “solita” con mentalità negativa e catastrofica. Ho usato le virgolette perché anche questo non è il termine più adatto a me o, perlomeno, non lo era: mi ha sempre contraddistinta una giusta misura di solarità, stupore, spensieratezza e di quella superficialità che intende Calvino. Quasi come ad essere rimasta una bambina. Che meraviglia però i bambini.

Arrivo al punto. Poco meno di un annetto fa dopo una bella, e buona, cena con le mie più grandi amiche (evento ricorrente, ma sempre piacevole) torno a casa e mi preparo per dormire e rivedere il giorno seguente i sorrisi (e le cacche) di quei piccoli esserini di cui mi sono innamorata durante il tirocinio in un nido d’infanzia. Mi sono sdraiata e, più rilassata che mai, completamente dal nulla (così ancora mi sembra sia stato), il panico. Brividi, sudorazione, palpitazioni, tachicardia, respiro corto, vertigini, spasmi alle gambe quando provavo invano a rilassarmi, paura di non-so-che, paura di morire. Paradossalmente, cercando di svuotare la testa per tranquillizzarmi non riuscivo a fare a meno di chiedermi cosa caspita mi stesse succedendo. Riesco ad addormentarmi quasi per la tanta fatica di tutta l’esperienza precedente. Il giorno dopo una sorta di malessere generale unito alla sensazione di non sentirmi più la me di sempre mi pervadeva. Era davvero stato un attacco di ansia, di panico? E io che pensavo di averne già avuti in passato prima della miriade di esami sostenuti. Eppure non erano nulla in confronto, merda!

Benissimo. Da quel giorno di inizio maggio sono diventata cardiologa, fisioterapista, angiologa, infermiera, farmacista. Dermatologa lo sono già, sai, avendo dermatite atopica e alopecia da quando sono nata ormai sono esperta di cortisone; perché si prescrive quello per ogni cosa, no?
A parte gli scherzi (credo), la verità è che la mia attenzione da quel momento va a qualsiasi, davvero qualsiasi, minimo sintomo o male del corpo. Ma soprattutto al cuore: ascolto i battiti con le dita ormai come un tic per capire se sono troppo accelerati o no (che poi chi lo sa quanti sono, boh), lo sento battere anche quando non ci penso e, puntualmente, mi agito e lui inizia a correre, sembra mi prenda in giro. Insomma, ho sempre pensato fosse interessante come organo, specialmente come tatuaggio da poter farmi, ma ora penso (e spesso mi dicono) di stare esagerando. Lo penso, sì, ma è come se non riuscissi ad evitare queste azioni, queste attenzioni. Con loro si è aggiunto un ulteriore, nuovo, pensiero che mi tormenta: la paura di morire. 

Subito dopo l’accaduto, spaventata, scrivo alla psicologa da cui, a seguito di un percorso di tre anni, non andavo più da un anno. Mi mancava, in effetti. Mi mancava l’aria. Per farla brevissima, lei dice che si tratta di una sorta di metafora: la fine – quasi – di un percorso accademico di cinque anni, l’inizio di una relazione amorosa stabile e con qualche iniziale accenno di futuro, il graduale distacco da un rapporto morboso e disfunzionale con i miei genitori, insomma la presa in mano della mia vita e il diventare concretamente “grande” rappresenterebbero tutte morti, e rinascite; così come il fatto di considerarmi ora “ipocondriaca” (nei mesi successivi avevo prenotato tutte le visite mediche possibili e immaginabili; tutte con nessuna problematica finale, se non una “tachicardia emotiva”) è per lei una semplice – se così si può definire – modalità di puntare l’attenzione e preoccuparmi di me stessa dopo una vita in cui ho dovuto preoccuparmi e “prendere sulle spalle” altri, mettendo quindi in secondo piano (e spesse volte pure tralasciando) quelli che dovevano essere i miei pensieri-problemi adolescenziali.

Dicevo, la paura di morire. Mia, la mia morte, in particolare. Un argomento che mai fino ad allora avevo preso in considerazione, o quantomeno non in questo modo. C’è una cosa a cui ancora non riesco a dare un minimo significato però: durante il giorno, indaffarata nelle più svariate attività, seppur con qualche palpitazione quando volontariamente mi addentro in pensieri negativissimi, mi sento quasi la me di sempre. La sera, la notte, sono il vero problema: come se al calare del sole diventassi un’altra persona (per ora, però, non mi trasformo ancora in licantropo. Per ora). Ho paura a dormire da sola, come se da sola non mi sentissi al sicuro, tranquilla; nella mia testa, durante la notte, mi deve per forza succedere qualcosa di brutto. Ogni volta che penso alla morte mi riaffiora l’immagine di mia nonna che due anni fa è stata seppellita; per quanto razionalmente mi renda conto che il tema resta comunque IL mistero della vita umana, pensare di dover essere messa dentro una bara mi manda nel panico. E mi chiedo: ma le altre persone non ci pensano? Ma soprattutto, perché non ci ho mai pensato in questo modo prima? Oppure perché prima non mi creava tutta sta roba?
Adesso prima di ogni cosa da fare, che magari più e più volte ho già fatto, cerco i rischi che possono esserci o se non ci sono, li creo; ogni brutta notizia che sento al telegiornale la immagino su di me. Per addormentarmi cerco di fare cose che mi piacciono per svuotare la mente nei pensieri più critici, ma è proprio facendole che paradossalmente sembra quasi che me le stia cercando, che stia iniziando a pensarci. La sera è come se mi mettessi il timer per iniziare a pensare, pensare, pensare. E agitarmi. È come se fossi talmente tanto abituata a questi pensieri da cercarli, che se poi non ci sono mi sento quasi strana allora ci penso ed eccoli lì. Solo che, cavolo, mi sembra una trappola. Mi sento in trappola. Comunque, dopo un po’, riesco ad addormentarmi.

Arrivo al termine, giuro. Come sono arrivata a te e al tuo sito, forse ti chiederai. Ecco vedi, quando durante il giorno mi sento relativamente bene e tranquilla, mi sento anche in grado di affrontare quelle bruttissime notizie che si trovano facendo ricerche su internet (che poi cosa risolvano sono la prima a non saperlo). Solo che stamattina alla ricerca “pensiero costante di morire” non ho trovato cose pessime e pessimiste, ma il tuo blog. Che ho letto così veloce da rivedermi in molte, molte cose. Quello che più mi ha colpita è stata la corrispondenza epistolare. Devi sapere che mio fratello ama scrivere e pochissimi giorni fa mi aveva consigliato di iniziare (o comunque provarci), perché secondo lui aiuta a fare chiarezza nella mente e nell’anima, e talvolta riesce a “curarti”. Insomma, mi ha detto con altre parole quello che tu hai scritto e che io ho letto. Allora mi sono detta: perché no? Ho provato. Non ti so ancora dire se mi ha aiutata scrivere riguardo un minimo ma enorme frammento di me, ma ho provato. E penso continuerò su un diario, che a me piacciono tanto carta e penna.

Un abbraccio, da isolata

Carissima tartarughina (dico per quel fatto della sensazione del collo a scomparsa e per la casetta che ti porti sulle spalle), grazie per la tua lettera, che bella! Mica facile ridere e far ridere quando si passa un periodo un po’ particolare, che da professionista studiata a Oxford quale sono, mi piace sempre chiamare periodo demmerda.

Ti ringrazio anche per avermi riportato una versione sincera di una mia collega, non sempre questo accade, ma a me fa sempre piacere sapere che anche tra sconosciuti, si cerca di creare un’interpretazione comune, sulla quale mi trovo d’accordo per le informazioni che ho. Ovviamente sapere che succede non ha mai fermato nessuno dal provare dolore, salvo gli esorcismi, in cui nominando il male, il male cambia casa. Ma il male di vivere vale più del più perfido dei diavoli.

Io parto sempre dallo stesso punto, qualunque cosa succeda. Per ricordarmi che il liceo classico è stata una benedizione e per naturale conforto che trovo nel pensare alle parole. Stavolta devo dire che ci sono rimasta di stucco, nel senso che ho letteralmente detto, alzandomi dal tavolo, seee vabbè ma non è possibile, quando sono andata a spulciare l’etimo di ipocondria. Te la riporto: Dal lat. tardo hypochondria (neutro pl.), dal gr. (tà) hypokhóndria ‘ipocondrio’, regione nella quale si presumeva avesse sede la malinconia.

Cioè capito, minchia! Che ok lo sappiamo che è pissicosomatico etc, ma sapere che sei abitata dalla malinconia è molto interessante rispetto ad essere abitata da un male incurabile. (Siamo serie, tanto i mali incurabili sono i veri target, te lo dico da dermatitica 100% quale sono, che se solo penso a una cosa difficile, mi ritrovo a grattarmi pure l’anima a metà pensiero).

Se hai trovato qualcosa che avevo scritto, immagino sia qualcosa in cui dicevo che la paura di morire spesso insorge (mi piace più pensare che si riproponga, come fanno i peperoni) quando siamo chiamati a vivere e sentiamo che ci manca qualcosa (o qualcuno) per farlo.

Quello che ti posso dire è che ogni volta che abbiamo un cazzo amaro in giro per l’esistenza, evitare di pensarci non aiuta, meglio pensarci in maniera sistematica finché la noia pesa più della paura. Nel senso, sarebbe pensabile per te in questo momento, ritagliarti mezz’ora la mattina prima di cominciare la giornata, per dedicarti alla minuziosa ricerca di sintomi su internet? E mezz’ora anche prima di andare a dormire? Non è una soluzione facile, in effetti nemmeno una soluzione, però è un metodo decente di azione, provare a dare uno spazio deciso da noi a una cosa che di spazio se ne prende troppo. Oppure anche ti invito a fare un check up giornaliero completo, scritto se preferisci, sempre alla stessa ora, partendo dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi (non importa se trovi lo smalto dell’estate scorsa, quello è segno di sanità mentale).

Però ecco, io più che di soluzioni parlerei della classica importanza che bisogna dare ai sintomi. Hai avuto un attacco di panico? Benissimo tartarughina, si vede che certe cose sono arrivate a dama e non possono più aspettare. Benedetto no, ma maledetto il male che cresce senza che noi possiamo vederlo e NO, non ti parlo dei vari tumori a cui ogni forum che si rispetti, a un certo punto ti conduce, più di quella malinconia che devi avere sottopelle e che poi si traduce in manifestazioni somatiche.

La mia prognosi è che passerà tutta la paura di morire, se ti concedi di non dover essere sempre quella che sostiene tutto, sempre solare, sempre sul pelo delle cose con leggerezza e mai con superficialità. Più ti concederai di esprimere certe emozioni in modo emotivo e non somatico, meno spazio avrà la paura di morire. Facile? Non necessariamente, però forse te lo devi. Mi fai pensare un po’ anche al personaggio di Mafalda, una simpatica bambina di un fumetto argentino, che passava un sacco di tempo a guardare i telegiornali rattristandosi e in molte vignette abbraccia un mappamondo. Ecco, non sono di quelle che oddiooo la pandemia ci ha kambiati!!1 però penso che un certo peso, pure fosse quello dell’abitudine, lo ha pure sempre messo sulla bilancia e sulle spalle.

Se ti viene meglio, scrivile, se non riesci a intercettarle, non fa niente, prova quando ti viene a bussare un momento ipocondriaco, a chiederti cosa è successo in quella giornata, quale dolore hai evitato di vedere o quale cacca non ti va di pulire. Hai ragione, i bambini so’ speciali, senza sovrastrutture, i bambini siamo noi prima che i doveri della vita venissero a chiederci il conto. I bambini sono famosi anche per un’altra cosa: per farsi venire la febbre quando in verità vorrebbero soltanto un abbraccio. Mia cara, hai proprio l’età legale per cominciarti a preoccupare della vita con serietà, io la metterei pure così.

Tempo fa ho letto un libretto delizioso. si chiama Morirò me l’ha detto l’internet, scritto da un ragazzo che per anni è stato ipocondriaco ed è, come te, traboccante di ironia. Contiene cose come: Senti questo che storie si fa per un dolore alla tibia, potrebbe pensare un ipocondriaco a colloquio con un suo simile. Cosa dovrei dire io, allora, con questi strappi ai polpacci che gridano leucemia?

Altro non me lo ricordo bene, questa l’avevo segnata, insieme a un’altra che diceva tipo chiunque è stato in grado di sopravvivere alla propria infanzia ha abbastanza informazioni sulla vita per il resto dei suoi giorni. Insomma, te lo consiglio molto più dei forum dove dopo ottocento commenti trovi sempre il simpaticone che dice “Chieda al suo medico” e tu dentro pensi, vabbè ma lei che cazzo fa scusi, gestisce un biscottificio?

Ecco, la tua domanda è sul corpo, ma la risposta no.

Ti saluto con molto affetto e con un altro piccolo consiglio di lettura che è proprio il primissimo libro che ho mai letto, Tre uomini in barca, english e delizioso, ancora rido quando lo ripenso.

Ti  mando un grande grande abbraccio per la tua condivisione e un augurio di pronta guarigione per la tua anima irrequieta e insieme anche un altro pezzetto di libro del cuore (no, non quello per misurare i battiti, quello per sorridere), con la consapevolezza che, non per l’ipocondria, ma proprio per la salute del corpo e dell’anima, non esiste protezione più grande di quella che ti può dare il tuo humour. Cara tartarughina, i malanni immaginati passano, il carattere per fortuna no.

“Ricordo di essere andato un giorno alla biblioteca del Museo Britannico per documentarmi sulla cura di non so quale lieve malanno soffrivo… febbre del fieno, se ben ricordo. Presi un trattato di medicina e lessi tutto ciò che mi riguardava. Poi, senza riflettere, voltai le pagine e cominciai a scorrere distrattamente la descrizione di altre malattie. Non so più quale fosse il primo malanno sul quale mi soffermai… qualcosa di terribile, di micidiale, però… ma prima di essere arrivato a metà dell’elenco dei “sintomi premonitori”, ero fermamente convinto di essere affetto da quella malattia.

Rimasi a lungo paralizzato dal terrore; poi, con l’indifferenza della disperazione, cominciai a voltare le pagine del libro. Giunsi alla voce del tifo, lessi i sintomi, constatai che avevo il tifo e che dovevo averlo da mesi e mesi, senza saperlo… e mi domandai che altro potevo avere addosso; passai al ballo di San Vito e scoprii, come prevedevo, di avere anche quello. Cominciai a interessarmi del mio caso e, deciso ad andare fino in fondo, ricominciai daccapo, in ordine alfabetico. Lessi la descrizione della malaria e seppi che l’avevo in pieno; lo stadio acuto sarebbe cominciato da lì a una quindicina di giorni. Quanto al morbo di Bright, constatai con sollievo che l’avevo soltanto in forma attenuata e che, se fosse stato soltanto per quello, avrei potuto vivere ancora per qualche anno. Il colera l’avevo, con gravi complicazioni; quanto poi alla difterite, sembrava addirittura che l’avessi dalla nascita. Esaminai coscienziosamente tutte le voci dal principio alla fine dell’alfabeto e potei concludere che la sola malattia dalla quale non ero affetto era “il ginocchio della lavandaia”.

Mi sentii quasi offeso, sulle prime; in certo qual modo, mi pareva un affronto. Perché non avevo il ginocchio della lavandaia? Perché quella menomazione? Ben presto, però, prevalse in me uno stato d’animo meno avido. Riflettei che avevo tutti gli altri malanni noti alla scienza medica e, reprimendo l’egoismo, decisi di rassegnarmi a non avere il ginocchio della lavandaia. La gotta, nella sua forma peggiore, mi aveva colto, a quanto pareva, senza che io me ne accorgessi; quanto alla zimosi, era evidente che ne soffrivo dall’infanzia. L’elenco delle malattie terminava a “zimosi”, perciò conclusi che non avevo nient’altro.”

L’essenziale non è invisibile al cuore

Tutto inizia 10 anni fa, quando finisco nelle grinfie di un narcisista manipolatore. Riesce ad intortare me e purtroppo anche mia figlia. Quest’ultima, figlia del mio primo matrimonio, avendo una grande mancanza del padre (non si è mai occupato molto della figlia), si è affezionata moltissimo (grazie anche alle sue doti di manipolatore) a quello che sarebbe diventato il mio secondo marito. La proposta di matrimonio, avviene ovviamente, dopo il decesso dei miei genitori, peraltro molto benestanti.

Fino a quel momento, il mio “fidanzamento” andava molto bene. Complimenti, attenzioni di tutti i tipi, mazzi di fiori, cene al ristorante, etc. Preciso che sono non vedente. Dopo il matrimonio, inizia l’incubo. Mortificazioni, insulti, cercava di farmi credere di essere pazza. È stato capace di qualunque schifezza. Approfittando della mia disabilità, impedendomi di cucinare (ci tengo a precisare che sono una brava cuoca, ai tempi d’oro riconosciuta anche da lui). Solo col passare del tempo, mi accorgo che le gambe non mi reggono, perdo la percezione di ciò che mi capita attorno e dimagrisco 24 kg. Lei dottoressa può sicuramente immaginare il calvario che ho passato, visto che mia figlia continuava a difenderlo, dicendomi che non dovevo fare la stronza, rovinando un matrimonio e che avevo bisogno di una persona che pensasse a me.

Col passare del tempo ed anche con l’aiuto di alcune persone amiche, mi rivolgo ad uno psichiatra, per una visita approfondita e per concludere, una Relazione Medico-Legale. Salta fuori sia la mia sanità mentale di base, ma saltano anche fuori le scatole di psicofarmaci, nascoste in casa, che il caro marito, approfittando della mia disabilità, mi sbriciolava negli alimenti. Unitamente alla collaborazione con il mio Avvocato, riesco a separarmi ed ora attendo la sentenza di divorzio. Mi è costato molto riuscire ad allontanarmi da questo essere, anche perché ne ero molto innamorata e non riuscivo a capire come potesse avermi portato dalle stelle alle stalle.

La cosa più brutta, è che è comunque riuscito ad allontanarmi da mia figlia, che non mi vuole più vedere e non mi permette di vedere il mio nipotino. Lui, in compenso è sparito, grazie al cielo e spero di non rivederlo mai più. (Detta da una non vedente fa un po’ ridere…ma va bene così)

La ringrazio per avermi dato questa opportunità,

C.

Carissima C., tanto per cominciare ci tengo a dirle che la sua lettera mi ha commosso, inutile nasconderle che parte di questa commozione mi è venuta pensando a una mamma e nonna che non può vedere figlia e nipotino, dall’altra pensando a quella stessa donna che vive anni da incubo in cui cerca di svegliarsi ritrovandosi sempre però a occhi chiusi. Mi scusi se nomino così candidamente il fatto che lei non veda, mi sarebbe più faticoso evitare di includere un fattore così importante nell’idea che sto provando a disegnarmi. Quello che anche ci tengo a dirle è che sono felice al pensiero di sapere che c’è qualcuno, da qualche parte, che ha trovato un modo per allontanarsi da qualcosa che un tempo faceva così bene e poi così ma così tanto male. Non tutti ci riescono, sono sicura che lo sappia.

Ora veniamo al resto, di solito non rispondo o non rispondo particolarmente volentieri (dal vivo come qui) alle affermazioni sull’aver incontrato una persona con disturbo narcisistico, uomo o donna che sia. Questo non perché non fidi di ciò che mi viene detto, anzi mi fido senza ombra di dubbio del fatto che ogni sentimento è un sentimento reale e che esistano tante verità quante persone su questo mondo, quindi le chiedo di accogliere questa mia titubanza nel modo più gentile possibile, perché se mi mettessi a dare addosso a questo individuo che pare essersi comportato in maniera così scorretta, non penso che le porterei sollievo, o meglio in un certo qual modo sì. quando ci feriscono abbiamo bisogno di sapere che l’errore non stato nostro e che siamo stati vittime di qualcuno pieno di cattive intenzioni. Eppure la rabbia, per quanto possa proteggere, è un balsamo senza effetto prolungato.

Quello che mi piacerebbe lei potesse continuare a capire è come mai le è capitato di imbattersi in una persona del genere e che cosa succedeva durante quei momenti in cui vilmente le sbriciolava farmaci nel cibo a sua insaputa, in cui screditava ogni suo gesto e in cui innalzava barriere tra lei e sua figlia. Quale era il testo del vostro contendere e inoltre, se fossi ovviamente la sua terapeuta, vorrei sapere cosa è successo al suo primo matrimonio, in che modo è finito e se questa è la prima volta che si “affida” così tanto a qualcuno o se c’è una parte di lei che, durante questo tempo orribile, ha preferito non sentire certi campanelli di allarme che erano lì nascosti tra mazzi di fiori e promesse per il futuro. Le chiederei tutte queste cose, pur sapendo che potrebbero farla sentire in difficolta, ma gliele chiederei lo stesso. In ultimo le chiederei anche che cosa intendesse con non fare la stronza. Forse non sopportava di vedere andare via un altro “papà”, forse come succede purtroppo molto spesso in questi casi, i figli se la prendono con i genitori per non essere stati abbastanza “amabili” da far rimanere l’altro. Lei se lo chiede mai se è meritevole di un amore tutto intero, in cui nessuno accudisce gli aspetti dolorosi dell’altro ma entrambi si prendono cura uno dell’altra.

Lo so che molto probabilmente non era certo questa la riflessione che si aspettava, mi dispiace tanto, è che anche se questo è un mezzo piccolino e di nessun ma dico nessun valore clinico, cerco sempre di comportarmi come faccio il resto del tempo, sollevando domande, cercando di costruire insieme una soluzione che non solo possa rendere più morbido il passato, ma possa aiutare a evitare che il passato si riversi tutto nel presente, mangiandosi il presente, mangiandosi il futuro.

Io vorrei non solo che lei cercasse un aiuto per costruire il modo di riparlare con sua figlia, perché se gli amori possono passare, i figli accidenti no, ma vorrei anche che con un enorme sforzo, provasse a riconsegnare tutto il male al mittente, delegando la questione ad uno scioglimento legale e pensando che anche se quel futuro che avevate costruito insieme, fatto di molte promesse e pochi fatti, non esiste più, ne esistono alcuni che aspettano soltanto lei per poter essere costruiti.

La mia titubanza sul disturbo narcisistico come capo d’accusa è dovuta a due motivi, da un lato penso che in moltissime occasioni non si tratti di un vero disturbo di personalità, ma di un carattere di merda, accompagnato a una scarsissima maturità relazionale e molta paura, dall’altro, anche quando si tratta di un disturbo conclamato, purtroppo la considerazione non cambia. Noi spesso immaginiamo che dall’altra parte ci sia una persona che nulla sente e nulla soffre, assetata di potere sigli altri e sempre in controllo, eppure è proprio in quei casi clinici che si riscontra la miseria più nera, fatta di persone continuamente in lotta con la loro essenza, anzi privi di un essenza, incapaci di amare perché incapaci di costruire un’immagine delle altre persone dotata di coerenza, continuamente perseguitati da un perfezione che ricercano altrove perché nel loro tormento non c’è spazio per il dubbio, non c’è spazio per gli altri, ma dagli altri sono ossessionati. Narciso non si uccide perché specchiandosi finalmente scopre la sua bellezza, Narciso si uccide perché specchiandosi finalmente si vede, e impazzisce per l’orrore.

Mentre lei, lei mia cara, nonostante tutto e tutti, finché riuscirà a sentire il modo in cui è fatta, come vero specchio delle sue emozioni, allora vedrà molto ma molto più lontano di qualunque stronzo le capiterà di incontrare. Consideri gli aspetti di questo per fortuna quasi ex marito come la vera disabilità, perché sono sicura lei non abbia avuto una scelta, mentre chi sceglie di fare male può provare a fare meglio e un’anima disabile e presuntuosa, il mondo non offre nessun rimedio.

La abbraccio,

Olimpia

Un depresso contro il mondo

Ciao Olimpia,  

per me sei un po’ come un’amica a cui chiedere un abbraccio quando ti manca il fiato e oggi che sono particolarmente triste, dovevo scriverti.
Da qualche mese non sto bene, soffro di ansia e depressione per una roba che la mia psicologa chiama dipendenza affettiva. Un dolore enorme che prende a braccetto la paura e la vita di ogni giorno che fino a poco fa tutto sommato non era accia, ora è un’agonia sfiancante. Il punto però non sono solo io, il punto è la relazione tra me e il mondo intorno. Il punto cara Olimpia è che il pianeta non sa che spesso la depressione non è una condizione fine a se stessa, vuol dire tutto e non vuol dire nulla, se non indagata. Dentro però c’è tanto. Tanto vuoto, tanto dolore, tanta vita irrisolta. Nessun depresso con attacchi di panico si impegna affinché lo sia e questo alle persone sembra sfuggire. Sto male perché sto capendo per la prima volta in 31 anni che altro non siamo che individui profondamente soli, dopo una lunghissima storia sto facendo i conti con il concetto di appartenenza, l’amore infinito della mia vita non è più mio e non lo sarà più, il mio cuore è in cenere, sto cercando di perdonare i miei genitori per i tanti errori che mi hanno resa così disfunzionale nei rapporti e soffro infinitamente perché vorrei un abbraccio caldo e trovo invece intorno a me tanto scetticismo, incomprensione e giudizio. La mia migliore amica mi dice “devi distrarti”, “fai sport”, “amati!”. Mia madre “Devi ringraziare per ciò che hai”. Ed è frustrante perché la mia vita ha perso tutto il suo valore e le persone mi offrono come soluzione, proprio la causa dei miei dolori. O come hai scritto te “come se volersi bene fosse un punto di partenza e non la condizione di arrivo“. Non voglio dilungarmi, vorrei solo confessare a te e dire al mondo che fa male. Che forse dovremmo esserci e basta. Non giudicare. Non pretendere di capire. Che non siamo tutti uguali e che dispensare stizziti ovvietà non è una risorsa, ma anzi può lentamente logorare.

Chissà te che ne pensi Olimpia, io nel mentre continuo a cercare risposte.

Ti stringo forte.

N.

Carissima N., adesso ti deluderò. Sì perché per volersi bene sul serio prima bisogna correre il rischio di deludersi, così tutto quello che rimane è più plausibilmente reale. E ti deluderò perché anche io, come tutta quella gente che ti dice le ovvietà, te ne dirò qualcuna. Cominciamo dalla fine: le risposte a che cosa? Come mai quando una storia d’amore importante finisce sembra di vivere negli incubi? Come mai i tuoi genitori non sono stati capaci di fare meno errori e renderti meno sbagliata di quanto ti senti? Come mai forse nemmeno a loro è toccato un buon modello e quindi fanno quello che per loro è la sola cosa giusta da fare? Come mai spesso gli amici ci sono per le cazzate e per le cose che ti riguardano sembra abbiano sempre di meglio da fare o da di dire? Qual è la tua domanda? Quando finisce la tristezza, quando finisce la rabbia, quando finisce tutto quanto così puoi dormire almeno una notte intera? Quanto bisogna forzarsi quando si è tristi di lavarsi i denti e di mangiare comunque la frutta?

Adesso ti faccio quelle che per me sarebbero importanti: quanto te ne stai approfittando nel dare la responsabilità a tutti tranne che anche a te? Quanto hai paura che questa sia una condanna e non una fase? Quanto hai paura della solitudine? Quanto hai paura di te stessa? Quando eri così innamorata, eri veramente così innamorata o questa storia ti faceva galleggiare su una patina sottile che non ha mai nascosto alcuni impegni con la vita che forse hai sempre trascurato e ora sono tutti esplosi tutti quanti insieme e quindi più che ritrovare il senso ti tocca affrontare il fatto che quel senso lo hai sempre scansato? Quanto sei stata bravissima a capire che di questo tema penso tante cose perché mi ci sono fatta qualche girone anch’io? Quanto posso dirti che mi dispiace tantissimo ma che mi sarebbe dispiaciuto molto di più saperti a non provare a ragionare mai su questioni che ti tormentano da sempre.

Il dolore fa male e nessuno si dovrebbe permettere di dire il contrario, ma le pacche sulle spalle, la pietà negli occhi, il darsi addosso e il dare addosso al mondo, fanno anche più male. La comprensione di certi momenti è un cammino solitario perché la materia è intima, la tragicità di certi momenti è totale perché l’impegno è stato totale e non si può avere un rinculo minore del culo che ci siamo fatti in una storia. Uscire troppo presto dall’abisso sarebbe dimenticare, dimenticare non è concesso come punto di ingresso ma come processo (grandissimo mazzo esagonale) in cui metti in in discussione ogni cosa quindi senti di averle perse tutte. E te persa insieme a loro, persa per sempre, triste per sempre.

Quanto è giusto parlare di depressione dopo la fine di un amore e non è più giusto parlare di fine dell’amore come giustificazione sufficiente per non alzarsi sempre a mille e per fottersene della frutta? Quanto è giusto parlare di dipendenza emotiva quando si sta vivendo un lutto? Quanto altro dobbiamo lasciare che le persone piangano i loro morti prima di concedere loro di poter piangere senza dover rompere loro il cazzo e quanto è giusto rompere il cazzo affinché quella persona a cui vogliamo bene si stacchi dalla crisalide e vada farsi il giro del palazzo? Quanto mi sono spaventata quando m’è preso er panico mentre facevo la spesa e sono dovuta uscire a gomitate? Quanto è necessario combattere il dolore degli altri e il dolore che sentiamo, anche se spesso è come dicono, proprio come dicono, che il tempo annacqua i pensieri, che il tempo annacqua i dolori?

Quanto mi credi se ti dico che passerà anche se ti permetti di stare così senza dimenticarti del perché stai così, prendendo seriamente al parola depressione ma pensando pure che uno, a un certo punto, pure alla depressione le può dire ao bella mia se semo visti? Perché secondo me tu sei una che ce la fa a fare quello che gli altri con te non stanno sapendo fare, a mettersi nel punto di osservazione giusto, anche se tira vento e si sta scomodi, per guardarti tutta quanta, nella tragedia più che nella depressione, nella gloria del tentativo più che nella disperazione della condanna. Sì, secondo me sei una che ce la fa, anzi, che ce la farà, che forse ce la sta anche già facendo ma che non vuole ancora dimenticare.

Non lo so se siamo soli, non penso, non tutto il tempo. Quello che penso è che ognuno di noi ha dei tempi riservati all’esplorazione del proprio abisso e, laggiù, c’è spazio soltanto per una persona, perché la tristezza, come la felicità, è un luogo strettamente personale in cui nessuno tranne che noi da soli potrà mai usare i nostri occhi per guardarci dentro. Non lo so se siamo soli, però so che siamo unici.

Ti abbraccio forte forte pure io, come mi ha insegnato a fare una mia amica perché io non ero tipo e lei ha deciso che doveva insistere e volte gli amici devono farlo.

Niente passeggiate, niente stronzate, sono d’accordo, però te lo ricordi che buono che è l’odore dei gelsomini nelle sere dell’estate?

Olimpia

P.S. l’immagine è la Fossa delle Marianne perché sono appassionata di racconti di persone che hanno fatto cose strane, tipo andare negli abissi e, negli abissi, anche negli abissi, ci sono tante cose.

A-MORS

Olimpia buondì! Mi fa sorridere il tuo nome perché per me ha un significato ben più grande di quello che c’è dietro al nome. C’è una storia d’amore. Dietro a quel Olimpia, c’è l’uomo che ora non ho più ma le cose vanno così e non ci si può fare niente. Senza corna, senza niente. Ho 25 anni, e come dicono “hai tutta la vita davanti per riprenderti“, la vita comincia adesso. A me la vita sembra solo che si sia fermata, proprio ora. Ho perso l’uomo che amavo e che con il tempo mi sono accorta essere l’unico che veramente ho mai amato. Ho perso gli amici, quelli che credevo tali ma a quanto pare non lo erano, ho perso una casa, quattro mura sì ma tutto il mio mondo. Sola terribilmente sola per la prima volta in vita mia. Sono una ragazza tostissima, lo sono sempre stata ma stavolta forse per la prima volta in vita mia non riesco a rialzarmi. È come se stessi navigando in una pozzanghera con degli stivali alti fino alle ascelle senza mai uscirne. È devastante perché è come se tutto il mio mondo si fosse spento e non so cosa fare.

Cara M. come mi dispiace.

Non sei in uno di quei momenti in cui le cose sembra come se si siano fermate, sei in uno di quei momenti in cui le cose si fermano proprio. Tutto fermo tranne il tuo dolore. Questo te lo dico non perché sono una stronza ma perché penso sia da stronzi cecare di incoraggiare qualcuno che soffre per amore solo perché ha 25 anni e tutta la vita davanti. A 25 anni hai di sicuro molte cose davanti però hai pure un quarto di vita indietro. Ogni mese, ogni giorno dei tuoi giorni ha il suo peso perché l’unico tetto che conosciamo e che dobbiamo conoscere fino in fondo è il tetto del nostro dolore, e dell’età che abbiamo nel momento in cui abbiamo a che fare con quel tipo di dolore lì.

Hai perso effettivamente moltissime cose e, parliamoci chiaro, quella sensazione starà lì finché non ne troverai di diverse. Se mi stai chiedendo come fare a rialzarsi adesso la mia risposta è adesso lascia perdere, adesso piangi, arrabbiati, non dormire, mangia poco, non parlare quasi con nessuno, non fare quasi niente, mettiti scomoda e incassa la realtà, un grammo alla volta in tutta la sua pesantezza.

Mi piacciono molto le etimologie, mi danno sempre un’illusione di conforto che però mentre la vivo è vera, quindi continuano a piacermi. Eppure se vai a cercare l’etimologia di “amore” troverai che intorno ci ruotano molti enigmi. Ad alcuni piace scegliere la versione alfa privativo, per cui l’amore è il contrario della morte. In effetti potrebbe avere senso se consideriamo come ci si sente quando ce lo portano via. Così, proprio così come ti senti tu. Come se avessero desaturato di vari toni tutti i colori del mondo. Un’altra cosa che mi piace è provare a far sentire le persone meno imbecilli quando hanno a che fare con il dolore. Perché se non possiamo scansare il dolore stesso, possiamo scansare quella sensazioni di essere incapaci a soffrire in maniera più dignitosa, più controllata, in qualche modo anche meno dolorosa. Invece no, chi tutto mette tutto perde.

L’unica cosa che possono creare certi momenti è lo spazio. L’immenso spazio vuoto sarà il tuo peggiore amico e il tuo migliore alleato. Perdere finiti amici, finte case, finti amori, passato quel cumulo di tragedia, diventerà acquistare libertà che avevi dato per non più necessarie, e ritrovarsi con delle possibilità di allargare la vita che pensavamo fosse già svolta e tornarci ad avere a che fare. Non come se avessi 25 anni, come se ne avessi di nuovo 5 e insieme 105.

Io, te, tutti quelli che conosciamo ignorano tutto dell’amore, tranne che una parte consistente di ciò che ci fa alzare gli angoli della bocca verso il cielo, ha a che fare con le cose che hanno a che fare con l’amore.

L’unica cosa che mi sento di dirti come se ne fossi certa, è che queste catastrofi ci chiamano a raccogliere una sfida: visto che ho sofferto prenderò il mio cuore e lo metterò per sempre in soffitta, lo ricoprirò con degli strati di cinismo, lo darò in mano a chiunque, lo trasformerò in pensieri razionali che mi terranno a distanza da altre catastrofi, farò finta che non sia importante. Oppure permetterò al futuro di avere altri spazi, altri nomi, altri amori, altre facce, altre mani e altre parole.

Non oggi mia cara, non domani e forse nemmeno il mese prossimo, ma solo quando sarà giusto, non buttare via la sfida come se non la potessi mai vincere, è una sfida di una vita e in questo senso sì, hai tutta la vita davanti, ma solo perché hai anche molta vita indietro.

Ti abbraccio,

Olimpia

E tu, e lei, e lei, fra noi.

Cara Olimpia, in realtà non so nemmeno perché ti scrivo però tento la fortuna. Ho 26 anni e frequento una laurea magistrale e ho un ragazzo con cui sono serena da 3 anni e mezzo; ma c’è una cosa che mi assilla: lui stava prima che ci conoscessimo con una ragazza che era mia amica al liceo e che poi ho perso in università. Ora io mi sento in colpa per lei perché all’inizio loro si erano lasciati maluccio (lui era apatico col mondo) e lei dall’essere indifferente a lui alla fine lo amava (ed erano stati insieme 3 anni e mezzo)… ma continuavano a scriversi, come amici.. Ad ogni modo lei è diventata triste e metteva storie tristi su Instagram e non sapevo come comportarmi con lei. Il problema è che ora è passato del tempo e ogni volta che mette un like ancora si riferisce a lui e io non so come prenderla. Mi dispiace tanto per lei e io, cerco di trovare tracce di lei su tutti i social (l’ho tolta da Ig e lei ha il profilo chiuso)… so che tutto questo può sembrare una cavolata, ma ogni giorno controllo più volte cosa fa e come sta…. volevo parlargliene quando ci siamo iniziati a sentire e lei ha voluto evitare. Non so sinceramente… cosa ne pensi? Ti ringrazio se leggerai la mail, sicuramente sono cavolate, però volevo scriverlo a qualcuno per avere un’idea esterna e non condizionata. Un abbraccio, G.

Cara G. quando ero bambina avevo tra i vari poster in cameretta, uno che mi piaceva particolarmente e sul quale passavo parecchio tempo: l’albero genealogico della famiglia dei Paperi. L’avevo trovato come gadget di qualche fumetto e ritraeva almeno 6 generazioni tra bisnonni di Paperino e Qui, Quo, Qua. La cosa che mi faceva intrippare erano tutti quei collegamenti, chi era stato con chi e aveva fatto cosa. Se vuoi non era niente di più che una qualsiasi telenovela, anche se poi le telenovelas sono sempre qualcosa in più di quello che sembrano. Diciamo pure che sono qualcosa che persino Shakespeare avrebbe in qualche modo apprezzato. Sogghignando sicuramente, ma apprezzato. Fanno leva, come i paperottoli, su qualcosa di atavico ben radicato nelle nostre mappe dell’anima: quel gusto del gossip e del sentirsi salvi dagli innumerevoli tradimenti che ci infilano sempre dentro. (Lasciamo per ora stare tutti gli altri ingredienti ben più rocamboleschi come gemelli mai visti che tornano dall’aldilà) .

Personalmente mi ritengo una persona piuttosto gelosa, ma devo dire che da quando mi sono concessa di esserlo, mi ci struggo un pochino meno. Prima passavo tutto il tempo a dire che non me ne fregava niente di niente e invece manco per niente. Posso dire che è una “dote” che mi è rimasta spesso in ombra, nascosta sotto una copertina misto orgoglio e buon senso, ma nei momenti in alcuni momenti è venuta fuori così prepotentemente che una volta mio padre mi prese da parte nel suo studio e passammo due ore intere a confrontare con photoshop le proporzioni del muso del mio cane con le proporzioni del muso di un cane che avevo visto nella foto di una vicina di uno mio ex amore, perché ero convinta che fosse lo stesso cane e che si vedessero di nascosto da me per andare al parco. E non ti dico quanto fosse diventato un lavoro a tempo pieno controllare tutto ma proprio tutto quello che succedeva su ogni social di un altro ex amore che mi aveva fatto rimanere tanto male. Mi mettevo a fare il detective più o meno 20 minuti ogni ora ed ero riuscita a rintracciare resti di antiche civiltà etrusche, foto delle comunioni di almeno 7 persone, una dozzina di donne avvenentissime con le quali di sicuro aveva già fatto stampare le partecipazioni, likes scolpiti a mano su antiche tavolette di cera e pergamene del neoltico informatico, ma nemmeno un grammo di pace per me. Quando ripenso a quei mesi, perché furono interi mesi e a come a volte mi nascondevo cinque minuti in bagno per dei veloci controlli incrociati, mi verrebbe un po’ da prendermi a ceffoni e un po’ da abbracciarmi. Ogni notte già insonne di suo dovevo anche scacciare via dall’orizzonte delle mie immagini mentali, tutte quelle che avevo collezionato durante la giornata. Credimi tra tutti i lavori che ho fatto, il momento detective è stato di sicuro il peggiore. Ogni tanto mi chiedevo su quale piano di realtà stessi cercando di vivere e ogni tanto mi pareva che la risposta fosse che non ero su nessun piano di realtà, ero semplicemente su tutti i piani che riuscivo a immaginare, compreso quello dove Paperino diventa una gangster, sposa Minnie e fa a botte con Pluto.

Non credo di poterti dare un reale parere in merito alla situazione che stai vivendo, ma penso di poterti dire che i resti degli amori passati non vengono mai sepolti completamente. Questo non vuol dire che sia più importante ciò che abbiamo perso rispetto a ciò su cui stiamo costruendo, piuttosto che si tratta di due binari paralleli di cui uno appartiene soltanto a noi, l’altro appartiene al presente e a chi ci accompagna. Ricordare non è volere indietro e le malinconie sono in parte dolci proprio perché sono lontane. Qualcun altro forse al mio posto parlerebbe di questi dannati social e via dicendo, io dico che tutto sommato è uguale a come era anche mille anni fa. Come il presente non spazza via i ricordi, la tecnologia non crea emozioni, le mette solo sotto torchio più di quanto farebbe il non poter più vedere o sapere.

Mi sembra che ci siano due forze diverse nel tuo racconto, una che si chiede se questa amica sia ancora un’amica e se valga la pena cercare un confronto con lei e l’altra che si chiede se questo ragazzo con cui sei serena, non sia segretamente popolato di torbide passioni. In verità non capisco se hai più voglia di sapere se lei sta male o di prenderla a capellate e lo stesso vale per lui. In caso fossi anche tu confusa come tra il senso di dispiacere e la sete di arrabbiatura, tranquilla, mi sembra più che normale. Non saprei se valga la pena percorrerle entrambe con lo stesso vigore, se fossi al tuo posto forse raccoglierei il coraggio per sedermi a parlare di questo Otello interiore con la persona che meglio di tutte lo può far ragionare. Candidamente, ammettendo pure che ti senti un po’ ridicola a sentirti minacciata, ma condividendo questo peso con chi i pesi li divide con te ogni giorno. Se poi pensi che anche costruire un chiarimento di amicizia con questa ragazza possa essere cosa utile per sentirti meno minacciata, allora prova anche quello, ma attenzione a non cercare per forza il nemico fuori dalla relazione tra voi due che poi corri il rischio di trovarlo, ma perché lo hai costruito così bene che la paura è finita per diventare vera dentro di te.

Considera anche la noia, mia cara, nella sua accezione più pura e pesante, è anche pensabile che in tutti questi mesi con tanto tempo a disposizione fare il piccolo detective sia anche un modo per tenere qualche spazio occupato. In effetti non ho mai conosciuto nulla che riempia più di quanto riesca a fare un’ossessione. Prima di salutarti ti faccio la domanda che spesso faccio in studio quando incontro qualcuno che è tanto preso da qualcosa in apparenza leggero: “A cosa staresti pensando se non fossi tutta occupata nella tua indagine?”. Una domanda apparentemente scema, lo so, ma ecco io quei Paperi li guardavo così tanto perché non avevo tanta voglia di guardare il resto della mia vita in quel momento, perché mi faceva un po’ male farlo e allora decidevo di infilarmi in un dolore che mi pareva di poter controllare, anche se poi alla fine era lui che controllava me.

Ti mando un abbraccio grande,

Olimpia

Don’t you want me, baby?

Quel giorno in cui mi ha rivolto solo frasi “di servizio”. Quel giorno come quei giorni in cui mi interrogo su cosa ho fatto di male, ma non trovo risposta, perché davvero non ho fatto niente, e la risposta converge in un :”Esisto”. “Esisto”, come risposta a: “cosa ho fatto di male”, ma anche come invocazione di una condizione, io esisto, cazzo, e non posso essere invisibile agli occhi della persona che dice di amarmi. Che magari mi ama, a modo suo, ma quel modo non è il mio. Dopo essermi abituata ai suoi rimproveri del “Cerchi sempre conferme, cerchi sempre amore, non ti basta mai”. E allora ho imparato a non chiedere più, a tenere tutto nascosto e taciuto, perché altrimenti non andavo bene. Che tanto, poi, non vado bene comunque. Quella lontananza che sentivo, che non erano i chilometri, ma erano i battiti del cuore e la loro forza. Quella necessità che ho di parlare, di ridere, di abbracci, che si scontrano con l’aridità di una persona che queste cose non le vuole, non le ha. E non mi rimane altro che scrivere, perché anche dirlo ormai, ha stancato le orecchie di chi ascolta. Stanchezza che si traduce in un: “Ma che ci stai a fare? Perché credo sempre troppo, perché misuro il mondo con il mio metro e non vorrei fare diversamente, per ritrovarmi con un metro più corto. E disastrosamente più leggero. Quella rabbia che ha lasciato spazio alla rassegnazione, che mai arriverà da quella parte qualcosa che non sia tiepido. Quanto è forte lo schiaffo dell’indifferenza, dell’invisibilità? Perché mi vedono tutti, tranne lui? Ciao Olimpia, volevo condividere con te questo pensiero, chissà hai qualcosa da dire in merito, un abbraccio.

Oh cara, accidenti quante cazzo di cose avrei da dire in merito. Mi sembrano così tante da non essere abbastanza. Chi non ci vuole non ci merita, direbbero i più, ma noi che ce ne facciamo? Non è mica la pubblicità della L’Oréal che finisce con “perché io valgo“, è la vita e il nostro valore lo misuriamo proprio anche e soprattutto in base al valore che gli altri ci danno. Giusto, ingiusto, stupido o saggio, è così. Se la testa può permettersi certe conclusioni razionali, il cuore no. E allora finiamo un po’ tutti a rincorrere chi non ci vuole perché in quel rifiuto c’è una parte di noi che vorremmo ci venisse restituita. Proprio come nella pubblicità abbiamo tutti bisogno di sapere che il nostro modo di amare funziona, come se senza quella conferma non solo non esistesse il nostro modo di amare, ma proprio, come dici tu, il nostro modo di esistere. C’è forse una quantità fissa, un tetto massimo che ne so, di amore che possiamo chiedere al mondo? Al mondo no, ma a chi non ne ha o non ne può avere per noi forse sì.

Lo so che quando faccio questi discorsi, da qualche parte nel mondo, un romantico mi darebbe un ceffone, ma io li faccio lo stesso. Oltre a qualsiasi romanticismo esistono delle regole, non precise ma onnipresenti, secondo cui si muove l’attrazione tra le persone. Tra queste una importante è che più cerchiamo di convincere qualcuno del nostro valore e del valore del nostro amore, meno quel qualcuno sarà interessato a confermarcelo. Questo vale ovviamente anche per noi. Quando qualcuno ha fatto di tutto per me, io ero altrove, quando qualcuno ha fatto niente per me, io ero sul pezzo come un cane rabbioso attaccato al polpaccio. Per amore? Per amore della verità? Per amore dell’amore? Ma va. Per orgoglio, solo e sempre per orgoglio. Non che lo percepissi sul momento ma a distanza dai disastri l’ho visto eccome. Ho spesso voluto conferme da qualcuno che di me non ne voleva sapere mezza proprio perché non ne voleva sapere mezza. A riprova di questo forse condannabile ma umano atteggiamento, quando è capitato che i ruoli si scambiassero, ero di nuovo altrove e lontana lontana.

Cercare conferme è sano e naturale, avere dei bisogni è sano e naturale, volere di più è sano e naturale. Quasi tutto è sano e naturale se pensi al modo folle in cui siamo fatti. Il punto non è cosa, ma dove. Il punto sarebbe raccogliere i coriandoli del nostro cuoriciotto frantumato e levarci dal cazzo. Ma non perché “Io valgo”, semplicemente perché più tempo passiamo in balia di chi non ci vuole, più tempo regaliamo al nostro orgoglio travestito da amore. Ti faccio una domanda e ti invito a risponderti togliendo il velo di lacrime e speranze: Se davvero costui è qualcuno di cui hai un’immensa stima, una grande ammirazione per il modo in cui è fatto, se è qualcuno da cui hai da imparare segreti profondi sulle verità del mondo, qualcuno con cui faresti un viaggio a piedi di ottomila km, qualcuno con cui faresti mattina a chiacchierare senza fatica. E non dico di pensare a quel qualcuno ideale che esiste solo nella tua testa, ma a quel qualcuno reale che esiste già. Perché tutte le volte che mi sono incastrata in un pensiero di amore non corrisposto, quando ho avuto le forze e il coraggio di guardarlo bene, non era mai nessuno che amavo sul serio, anzi erano perlopiù persone che umanamente mi risultavano intollerabili, però non tolleravo il fatto che non tollerassero me. E questo non è amore, è una forma di dolcissimo egoismo strappalacrime. Nessuno che non mi abbia amata come io avrei voluto sarebbe stato l’uomo che avrei sposato volentieri, eppure tutti hanno ferito il mio orgoglio e parte di quello che sono. Certi dolori sono esclusivamente personali, certi dolori sono nostri ed è con noi che li risolviamo sebbene tutto dentro di noi sembri farci pensare il contrario.

Una ragazza veramente tanto in gamba che ho avuto modo di incontrare nello studio, mi raccontò che aveva così tanta voglia di essere amata che aveva fatto un grande collage di occhi di ogni tipo. È qualcosa che non dimenticherò mai.

Don’t, don’t you want me?
You know I can’t believe it when I hear that you won’t see me
.”

Un abbraccio grande a te,

Olimpia

Sono ossessionata dall’amore

Cara Olimpia,

Ho 26 anni e mi sento in un vortice di emozioni. Mi sento su una giostra che non si ferma mai, oggi sono su e domani sono giù. Senza dei motivi realmente concreti. Alla ricerca di un po’ di sana serenità ho deciso di prendermi qualche giorno per stare con me stessa, farmi compagnia e prendermi cura di me. Quindi eccomi qua a scriverti sono sulla riviera ligure e penso ai miei ultimi mesi di vita…io sono un’infermiera, in questi ultimi tempi la mia vita è stata completamente ribaltata, il mio lavoro mi piace tantissimo, ma a volte sono così stanca che faccio fatica a stare sveglia quando torno a casa dal turno. Io non so in che modo, ma anche se sono così stanca la mia mente sembra così produttiva, è un flusso continuo…in particolare non riesco a togliermi dalla testa il desiderio di trovare l’amore, sta diventando quasi un’ossessione, sai? Io in realtà sono single da tanti anni e mai ho avuto questo desiderio così impellente e impaziente di essere realizzato…come posso fermare per un po’ il mio cervello che fa tutte queste richieste così difficili da realizzare? Visto che lo stesso cervello mi spinge ad uscire con diversi ragazzi ed a eliminarli automaticamente dopo pochissime uscite?

Grazie già per la tua dolcissima risposta spero di essere stata abbastanza chiara.

Un abbraccio

F.

Cara F.

Ti proverò a rispondere prendendo in considerazione la tua lettera da due diversi punti di vista. Uno che sta dalla parte della legittimità di questo tuo forte desiderio, l’altro che lo ritiene comunque legittimo ma che forse ci si nasconde un po’ dietro.

Non saprei davvero dirti da che parte pende di più la bilancia, ma diciamo permettimi di andare un po’ a occhio. Mi ha incuriosito come tu abbia nominato il tuo lavoro come fonte di grande amore e allo stesso tempo fonte di grande stress. In effetti fare quello che fai necessita di una grande vocazione e anche con i turni di riposo che sono concessi a tutti gli infermieri, non credo avanzi tempo realmente utile per trovare riposo. Mi verrebbe da chiederti in che modo è stata scombussolata così tanto la tua vita, se hai cambiato luogo in cui lavori, se hai preso insomma qualche grande decisione e, sempre a occhio, verrebbe da pensare di sì. Quindi penso ti trovi ancora in una fase di assestamento da momento A a momento B dell’esistenza e in quei momenti, come nelle vacanze, come a Natale, come (quasi) ogni maledetta domenica, lì dove c’è spazio, c’è spazio per pensare. A quello che abbiamo combinato con quello che siamo, a quello che siamo diventati, a quello che abbiamo perso, a quello che ci manca.

Se sei senza amore da tanto tempo, bontadidio, ci sta che tu ne abbia desiderio! Non conosco una sola persona sana di mente che dopo un po’ che se ne sta senza, non si chieda come si starebbe con. Sarebbe bello pensare di poterne fare a meno, per certi aspetti, per altri sarebbe terribile, quindi non sentirti ossessiva se nel silenzio della sera, quando il dovere è stato fatto e tutti tornano a casa da qualcuno, ti viene voglia di entrare e trovare un abbraccio. O qualsiasi sia la tua fantasia romantica che ti censuri da sola dicendo che è un’ossessione. Un desiderio grande di certo ci può assediare al punto da sembrare un’ossessione, ma è solo un desiderio grande. Se mi avessi detto che ti stai ossessionando con la compravendita di yatch ti direi beh, forse ma forse non è un giro di pensiero così produttivo. Se però parliamo di amore, lo avrai capito sono una romantica, come posso dirti come fare a smettere? Piuttosto preparati un bel rituale per concederti questi pensieri: musica jazz soft, del vino, un par de candele e una scatolina di kleenex già che ti trovi. Come lo vorresti questo prossimo, che qualità dovrebbe avere, che difetti non gli perdoneresti, com’è andata con l’ultimo in modo da non ripetere gli stessi errori ma casomai perfezionarli?

E poi ti chiederei anche di chiederti, ma questi qui con cui esci, hanno qualcosa di vagamente simile all’idea che ti sei fatta della persona che vorresti conoscere e che ti conosca? Perché magari proprio perché presa dalla fretta stai andando un po’, come diciamo a Oxford, a cazzo nelle scelte e poi ti trovi che non ne vuoi più sapere niente. Nel senso, se sto morendo di fame rischio di fare una spesa balorda al supermercato, quindi non vedo perché non dovrebbe applicarsi lo stesso criterio alle più alte sfere.

Poi c’è l’altro punto di vista, che mi richiama una cosa letta tempo fa, anche se non mi ricordo bene da quale autore ma puoi fidarti che l’ho letta da qualcuno che consideravo saggio altrimenti non me lo sarei mai ricordato fino a qui, e che comunque diceva una cosa tipo “Se non stessi pensando adesso all’ossessione amorosa, a cosa dovresti pensare?”

Ecco, tolto il romanticismo e tutto ciò che gli sta intorno, rimane questo strano potere della cotta e ancora di più della super cotta, cioè quello di portarci via da dove siamo, in un posto migliore in cui gli impegni con noi stessi possono aspettare o essere sostituiti da un bel contratto a tempo indeterminato con il cuore di qualcuno. Se lo avessi sentito anni fa mi sarei sicuramente incazzata a morte, mi sarebbe sembrato un parere cinico e freddo, invece devo dire che con il senno del poi, quello delle rughe, quello degli errori, posso affermare che in effetti succede. Succede che l’amore ci porti via da noi, via dai sogni che avevamo e via dalle cose che non riusciamo a fare.

Tempo fa una ragazza mi disse preoccupata che la notte non sapeva come fare perché da quando aveva memoria si addormentava solo pensando a qualcuno per cui aveva qualche cottarella. Lì per lì mi è sembrato un sentimento come di bambini, ma in tutta verità io non mi sento così diversa. Se non penso a qualcuno, nel vuoto della mia stanza, nel vuoto della mia vita, mi tocca pensare a me. A qui fantasmi che mi bussano da tutte le parti, che mi dicono che devo fare di più, devo fare meglio, devo devo devo. Ignorarli? Non fino in fondo perché mi dicono delle cose che hanno senso, non sono solo severi, sono anche giusti. Ogni volta che mi sono innamorata ho buttato un pezzo di me per cercare di riappiccicare il pezzo di qualcun altro e poi mi sono ritrovata con tantissimi piccoli pezzi dappertutto, dentro e fuori. Cosa porta l’amore, ma cosa toglie. Cosa toglie sembra brutto da dire ma forse lo si deve dire. Toglie qualcosa, toglie certe angosce o forse le ricopre solo, forse le mette in freezer ma non le uccide.

Questi sono i miei due istintivi punti di osservazione sulla tua questione e per questo ti invito da una parte a concederti senza vergogna quei momenti al ritorno del lavoro, come se fossi una ricercatrice che sta studiando qualcosa, non come una scappata dalle telenovelas. Dall’altra parte ti invito a chiederti, con coraggio e con paura, se c’è qualcosa che vorresti o dovresti fare, di molto importante, da cui questo pensiero sognante ti protegge tenendoti lontana.

I 26 anni sono bellissimi, cominciano a essere giusti per crescere e non sono troppo pochi per non sentirsi cresciuti. Non fare mai a meno del desiderio d’amore, non fare mai a meno di guardarti dentro regolarmente per vedere come sta quella persona speciale che abita insieme a te tutto il tempo.

Un abbraccio,

Olimpia

Penso sempre alla morte

Cara Olimpia, ho avuto spesso il desiderio di scriverti ed eccomi qua. Spero tu stia bene, che stia passando una felice estate e di non annoiarti con la mia “lettera”. Penso sempre alla morte, Olimpia. Non come desiderio di farmi male o di privarmi della vita. Penso alla morte con terrore e con rifiuto. Fin qui niente di strano, dirai. Chi non ha paura della morte? Chi non ci ha pensato almeno una volta con profonda tristezza? Il punto è proprio questo. Io amo la vita in ogni suo capriccio, l’abbraccio e ci faccio a botte e la difendo, ricoprendola di libertà e baci. Ed ogni giorno, seppur faticoso, mi dona tanto. Anche quando sembra mi tolga tutto. Ci sono volte(molto frequenti) però in cui questo pensiero mi invade e mi colpisce alla schiena. Può durare un’intera giornata, molti pianti e crisi di panico. “Il mio cane non può morire, deve vivere 100 anni, io lo amo troppo ed è così meraviglioso!” e via col pianto. (Il mio cane sta benissimo) “Certo che ho un uomo meraviglioso al mio fianco , non so cosa farei se domani lo perdessi!” (Porello, aggiungerei. Immagino scenari non rosei. Quanto si gratterebbe, se ne venisse a conoscenza!) Divento tristissima, fobica. Faccio pensieri persino sulla mia morte! Mi ritrovo a parlarne e disperata a dire” OH, MA IO NON VOGLIO MORIRE! IO VOGLIO VIVERE, EH! ” come se qualcuno potesse evitarmi la morte, un giorno. Io vorrei solo che questo pensiero non condizionasse le mie giornate, non mi creasse paranoie invalidanti. Perché ti giuro che lo fa. Ricordo ancora quando da piccola controllavo che mia madre respirasse, mentre dormiva. Mi mettevo lì e trattenevo il fiato, così potevo vederla meglio respirare. Sì, vederla, non sentirla. Vedere il suo stomaco gonfiarsi in un bel respiro. Mi sento molto stupida anche solo a ricordarlo! Ed ecco che mi ritrovo a diagnosticarmi cose brutte, ogni volta che ho un dolore strano e a pensarci per ore e ore come se non ci fosse un’altra possibile spiegazione. Dando per certa la previsione più brutta. Si, faccio parte del 99% della popolazione mondiale che si diagnostica malattie su google, ma poi mi fermo ad immaginare la mia vita con quelle malattie e via di nuovo al circolo vizioso. Sono patologica? Boh. Io vorrei solo non pensarci più. O magari leggermente meno. Non sentirmi matta, ecco.Vorrei tanto che questa paranoia si ridimensionasse, ma non so come aiutarmi. Ti ringrazio, Olimpia, anche solo per avermi letta. Scrivere è una gran medicina e certa che dall’altra parte ci sia un cuore attento ed eccezionale, già mi sento meglio.

A

Cara A,

Tra le persone che mi ha fatto conoscere il mio lavoro mi è rimasto impresso un ragazzo molto giovane che il primo giorno in studio si presentò con la playlist che avrebbe voluto mettessero nel giorno del suo funerale, giorno in cui tutti si sarebbero finalmente accorti di quanto fosse speciale. Devo dire era una selezione affatto male.

I vivi pensano alla morte a volte tanto quanto pensano alla vita. Alla propria, a quella di qualcuno che amano, alla morte di un lavoro, di una pianta, di un oggetto. I vivi pensano alla fine delle cose anche quando sono appena iniziate, anche quando ancora non sono iniziate proprio. Non te lo so dire perché i vivi siamo così, credo perché la paura è un’emozione antica e spesso funzionale, o forse perché il numero delle cose difficili o dolorose supera statisticamente quello di quelle felici e facili. In effetti la felicità non è poi così interessante, ha poco da dire e molto da vivere, però viverla vuol dire esporsi alla delusione e spesso la fatica del solo pensiero ci rende cecchini dell’auto sabotaggio, così possiamo tornare a sentire le canzoni d’amore struggenti che sono sempre più belle di quelle sole cuore e ma vaffanculo dai. Ecco questo per dire che la parte oscura e scura del mondo va un po’ per la maggiore, nonostante tutta quella fila di ultra fomentati dopati indemoniati che ci inondano di stay positive e vivi ogni giorno come fosse l’ultimo. Cosa che se ognuno di noi provasse a fare anche solo per un giorno finirebbe infartuato entro le undici del mattino.

Tutto va bene eppure tutto può finire. Non è una paranoia, è la verità.

Secondo me i pensieri che fai sono pensieri su cui vale la pena piangere, nel senso che potresti essere benissimo la protagonista di un dialogo di Platone così come di un romanzo, c’è così tanto dentro a questi pensieri su cui pensare, c’è così tanta vita nei tuoi pensieri sulla morte. Hai mai pensato che invece di cercare di mandare via per forza un pensiero su cui per forza ci dobbiamo fermare, in qualche momento, in qualche modo, a pensare, potresti approfondirlo come fa bene fare con tante cose che ci fanno paura?

Cioè dedicare un po’ di tempo a cercare di capire cos’è la morte per le diverse culture e religioni, quali sono gli epitaffi più poetici e più sarcastici mai scritti, a sentire qualche stand up piena di black humour, a vedere che abitudini strane abbiamo avuto nel corso dei secoli per i nostri morti, a vedere qualche video della festa dei morti in Messico e poi un giorno magari andarci anche, a scoprire qualche libro che ne parla, qualche canzone che ne parla. A parlare di questa cosa con te apertamente perché mi pare di capire che ti sta chiedendo di darle spazio. Dagliene così tanto che ti troverai a essere passata avanti e indietro sugli stessi pensieri almeno tre o quattro volte, e andare avanti senza tornare tutte le volte indietro.

Perché dico proprio sulla morte ti sei fissata, te lo sei mai chiesto? Hai perso qualcuno di molto importante all’improvviso e senza che ci potessi fare niente? Ti serve un pensiero ingombrante per distrarti da altri pensieri meno ingombranti ma più fastidiosi e quotidiani? C’è qualcuno a cui vuoi molto bene che non riesce a prendersi bene cura di se stesso, o forse questo capita a te? Sei contenta della tua vita, mia cara A? Ti restituisce davvero anche nei giorni in cui sembra che ti tolga?

A me capitarono dei mesi, anni fa, in cui mi presi una cotta per questa ossessione. Chiedevo sempre a tutti che cosa ne pensassero e come vivessero la questione. Per meglio dire chiedevo ma come si fa a fare una cosa, qualsiasi cosa, fatta bene, fatta con cura, fatta che duri, se tanto poi tutti quanti dobbiamo morire? Nella mia testa non faceva una piega e anzi mi parevano matti tutti gli altri che si facevano in mille per il regno dei vivi.

Dopo altri mesi, parecchi mesi con momenti di riposo e ritorni di fiamma, mi è sembrato di intuire che mi facevo questa domanda perché non avevo ancora trovato il modo di diventare quello che volevo essere da grande e le mie giornate non avevano senso e niente aveva senso e a quel punto allora che il tutto di tutti anche non abbia senso. Adesso ci penso ancora, ogni tanto, penso che non sarò abbastanza forte per superare niente e che dovrò fuggire su una montagna insieme alle capre e alle stalattiti per rendere il mio tempo così noioso e fermo da farlo sembrare infinito ed essere tutto sommato ok con la decisione quando toccherà di morire a me.

Mi concedo di pensare strano come mi concedo due bicchieri di vino (uno se lo concedono quelli veramente matti), come mi concedo di non capirci niente di niente sul che cosa stiamo facendo tutti quanti, su che che cosa, per favore la verità vi prego sulla vita. Mi piacerebbe che tutti ogni tanto se lo concedessero per dare importanza alle giornate, che poi sono un po’ l’atomo della vita. Concediti proprio una mezz’ora di orologio al giorno in cui a questa cosa ci pensi come se non facesse così paura e non più di una ricerca al giorno su Google perché tanto lo sappiamo tutti benissimo che finché non si fa ipotesi di brutto male non si chiudono le pagine dicendo ecco vedi lo sapevo io lo sapevo. Per poi riaprirle una sigaretta, forse l’ultima, dopo.

Sono dissacrante, sono scorretta e superficiale? Certamente sì a tutte e tre. Le questioni di massima rilevanza vanno trattate come se ce lo dovessimo fare amiche per sempre, che anche se non le puoi fregare, magari è meglio trovare il modo che non ti freghino più o prima del dovuto.

Per sempre, bello dire per sempre, suona bene. A me piace e mi piace anche se non può essere vero mai, è vero finché lo riesci a dire. Mi piace molto anche quello che dice il tizio dell’oroscopo dell’Internazionale: Apocalypse it’s now, so let’s dance.

P.S. Quella cosa sul respiro della tua mamma è molto bella, non stupida.

Olimpia

Sto iniziando a smettere di credere nell’amore

Cara Olimpia,

onestamente non so da dove cominciare e spero di riuscire a farti capire. Non riesco a formulare quello che sento in una domanda breve e concisa da farti, quindi mi limiterò a scrivere, seguire il flusso e sperare di farti arrivare una storia che può avere una risposta, un parere o quello che riterrai più opportuno. Sono una donna di ventisei anni. Una donna per niente perfetta, munita sì di pregi, ma anche di difetti e di vulnerabilità. Insomma: quello che ti sta scrivendo è un essere umano in piena regola. Essere umano che ha sempre avuto una caratteristica per la quale è stato preso in giro per molto tempo: credere spassionatamente nell’amore, nell’esporsi quel tanto che basta e nel correre i rischi quando lo si ritiene necessario, insomma quando sente che ne vale la pena. Nella mia breve vita ho avuto solo una storia. Storia durata poco, storia piena di sfaccettature e contraddizioni, difficile da raccontare nei dettagli (più che altro è per alleviarti dalla sofferenza di farti leggere un romanzo di 567 pagine), storia con una persona che posso dire  ho amato davvero, in un modo che, riconosco, probabilmente mi ha precluso la possibilità di ricominciare da capo per un po’ di anni dopo la sua conclusione. Passato il mio periodo di lutto, sono tornata nel mondo alla ricerca dell’amore, dell’altra metà che ero certa starmi aspettando da qualche parte. Beh, fiasco totale. Cotte sfumate davanti alla realizzazione delle vere persone che mi stavano davanti, rifiuti, porte in faccia da gente che mi conosceva e anche che non mi conosceva. Quest’anno è arrivato il mio punto limite. Un po’ di tempo fa ho incontrato un ragazzo che mi ha letteralmente sconvolta (non sono fatalista, ma credo bisogna ammettere che in rarissimi casi certe cose la vita te le fa cadere addosso con una premeditazione chirurgica). Questo ragazzo è straniero. Ho lavorato per un anno e messo i soldi da parte per andarlo a cercare. Non avevo il minimo dubbio. Tutti mi dicevano di lasciar perdere, che dove dovevo andare, che sicuramente lui era andato avanti con la sua vita, ma io ero sicura che fosse lui. Così quest’anno sono andata a cercarlo, sono partita per una settimana, mentendo a tutti su dove stavo andando per proteggermi dai commenti cinici degli altri. Versione breve della storia: è andata male. Sapevo di star correndo un rischio, ma dal momento che a me le cose non sono mai andate particolarmente bene, pensavo di essere forte e preparata all’eventualità che andasse male. Mi sbagliavo. Nessuno sa di questa storia. Solo io e lui. Mi chiedo se valga la pena di continuare a credere nell’amore tra due persone. Se esiste davvero o se se lo sono inventato. Se la nostra generazione sia capace ed abbia il coraggio di amare in un certo modo. Mi chiedo perché c’è questa moda dell’essere cinici, scettici e “sessualmente impotenti” parlando a tutti, anche ai passanti, della propria “brillante vita sessuale“. Mi chiedo perché solo i ragazzi possono correre dei rischi e le ragazze “Oddio per carità NO!”. Un’altra cosa che mi chiedo- e so che è vittimista- è cosa ho fatto per meritare questi lieti fini mai accaduti.

Grazie della lettura e buon lavoro.
Romantica spezzata.

Cara la mia Romantica spezzata, con questa tua firma hai finalmente esaudito il mio sogno di sentirmi la protagonista di una vera posta del cuore, grazie.

La tua lettera mia ha intenerita e innervosita allo stesso tempo, proverò a spiegarti il perché. Mi ha intenerita perché la tua ultima riflessione è tanto vera e tanto puntuale.
Forse in altre generazioni si amava in maniera diversa, o per meglio dire ci si concedeva meno la possibilità di rompere una relazione, con tutti i benefici ma anche i problemi che questa difficoltà ha comportato. Se ci pensi ancora in molti rimangono con qualcuno che non amano, che amano poco, che odiano meno di altri, per non rimanere da soli, e questo dal mio punto di vista è un crimine atroce contro l’umanità di se stessi, contro l’insormontabile questione per cui la vita una è, una rimane e solo con una vita abbiamo a che fare. Se ci pensi credo sarai d’accordo con me che sia meglio cercare per una vita qualcuno che ci faccia sentire a casa, che fare casa con qualcuno per una vita intera senza sentirsi mai a casa.

Ecco, sicuramente l’amore è diventato più liquido e più rapido. Come un supermercato con troppe scatole di cereali in cui alla fine ne usciamo che non ne abbiamo comprata manco una ma comunque speso un sacco di soldi e di energie. (Per questa parte ti consiglio, se non lo avessi già letto, Amore liquido di Bauman, davvero ma davvero illuminante). Insomma più possibilità, più socialità, più mezzi, più chirurgia per essere belli, più estetica in tutte le salse e potrei andare avanti ma rischierei di sembrare banale, non corrispondono a una più alta probabilità di innamorarsi, solo a una maggiore quantità di tentativi fallimentari o come dici benissimo tu, di lieti fini mai accaduti.

Su questa parte stai pur sicura che ricevi tutto il mio migliore consenso, così come su questa pudicizia nel mostrare le emozioni come fossero qualcosa di cui vergognarsi. In effetti io esco sempre un po’ pazza quando sento qualcuno, ancora di più se più giovane di me, dire che dell’amore non se ne interessa, che alla fine si sta bene da soli, che viva er poliamore, er polisesso er poliqualchealtracosachedetestopronunciaretantoquantoapericena. A regà, penso, ma che cazzo state a dì? Senza amore dove andiamo, DOVE? Non sono una di quelle persone che crede che ognuno sia già completo, per carità, ma sono una di quelle che crede che non esistano metà perfette, esistono percentuali più o meno consone che partecipano alla grande torta a spicchi di cui è fatta una felicità.

In qualche modo mi ritengo una romanticona pure io, affezionata alle favole e ai lieti fini, sempre pronta a non rinunciare anche quando la vita mi ha mostrato i denti affilati della delusione abbaiandomi in faccia.

Però, c’è un però, quel però che cercherò di dirti rischiando di essere infilata nel mucchio di quelli che hanno cercato di metterti in guardia in tutti i modi e tu niente, caparbia e appassionata come Icaro, ti sei schiantata. Mia cara spezzata, l’amore non si insegue. Non si insegue mai.

Che tu sia donna che tu sia uomo, giovane o vecchio, scemo e intelligente, bello o brutto, l’amore non si rincorre e neanche lo si può pretendere dal mondo. L’amore come si fa, come si vive, io non lo so, ma sento che se ti dessi una pacca sulla spalla in questo senso, non farei del bene a nessuno.

Probabilmente l’amore si impara (ti consiglio anche L’arte di amare di Fromm da cui sto rubando questo pensiero) si impara che cosa è per noi e si impara come andarselo a cercare fuori di noi. La definizione di amore è talmente tanto personale, un po’ come quella della felicità, che ti inviterei a diffidare di chiunque provi a dartene una. Quello che sappiamo è che è inevitabile e che se lo evitiamo per tutta la vita ne pagheremo sempre il conto. Non basta essere pieni di amore per essere amati, altrimenti rischia di diventare una prepotenza. Come a dire eccomi mi vedi, guarda com’è grande il mio cuore, guarda com’è forte il mio sentimento, guardami che cazzo, mi vuoi dire di sì oppure no, eh? Qui mi è venuto in mente un tal Antonio che anni fa si arrampicò sul tetto della chiesa del paese solo per chiedere in sposa la mia amica. “SPOSAMI STRONZA, SPOSAMI!” così per una mezz’ora finché qualcuno non chiamò un’ambulanza e qualcun altro il parroco.

Bada bene che te lo sto dicendo con affetto, alla maniera un po’ brusca di noi romani della Garbatella, ma con affetto. Prima di partire in sesta verso qualsiasi cosa che possa sembrare un miraggio di amore, prima di un grande rischio, ci vuole sempre un piccolo calcolo. Quanta affinità c’è con questa persona, quanto mi ha dato e quanto ho dato, come sono i nostri caratteri, come sono le nostre vite e ti dirò, pure come sono le nostre famiglie, la musica che ascoltiamo, le cose in cui crediamo, quello che ci piace mangiare, bere, vedere al cinema, leggere, qual è il grado di intesa sessuale, qual è il numero e la qualità dei baci e di tutte le altre cose che fanno di un sentimento, un sentimento amorevole e reciproco. Se tu ignori questo piccolo grande calcolo delle probabilità, non stiamo giocando una bella partita di scacchi, ci stiamo buttando dal dirupo senza corda. E infatti ci sfracelliamo. Non esistono solo i nostri sogni d’amore romantici, esistono anche i sogni d’amore romantici di tutte le altre persone e se i nostri non combaciano con i loro, fa male, ma è nell’ordine delle cose possibili.

L’amore forse è un arte, forse un po’ come la psicoterapia, non hanno bisogno di credenti, ma di persone che provano a farlo al meglio e solo quando qualche fiore spunta dal ramo, allora possono dire è vero oppure è tutta una invenzione.

Finché non tutelerai per prima te chiedendoti senza fronzoli con che tipo di persona vorresti condividere la tua idea di amore, troverai tante porte in faccia e tanti rifiuti, perché, banalmente, forse anche troppo banalmente, nessuno trova nulla se non sa che sta cercando e, devo dirtelo, cercare l’amore non è abbastanza specifico come da poter diventare reale.

La fantasia va conservata sempre che se no ci perdiamo i sogni e perdere i sogni è un peccato, ma almeno metà di quei sogni d’amore devono essere passati al vaglio da un senso concreto di realtà. Non sprecare quella cosa che hai dentro che chiami amore, non buttarla via così, custodiscila e crescila e studiala come si fa con le cose preziose e intime. Non farla calpestare, non farla funzionare come fosse una pesca a strascico perché poi nella rete ci trovi scarpe vecchie e copertoni insieme a qualche traccia di paranza. Dalle storie si impara moltissimo, una volta attraversata la palude di fango di lutto, quello che spero non si impari mai e a diventare cinici. Invece spero insegnino a tutti a diventare più scettici, di se stessi e degli altri, più prudenti, più maturi, più fanatici anche della ragione, più capaci di pazientare, più in grado di tollerare il fatto che gli incontri d’amore sono come gli spermatozoi, se ci aspettiamo che ogni contatto faccia gol, stiamo aspettando male. I tentativi falliti possono essere solo i gradini della scala che ci porta dove abbiamo deciso che vorremmo andare, e stare.

Quando ero molto giovane mi innamoravo sempre di tutti, anche di persone con cui non avevo mai scambiato manco una parola. Nella mia testa matrimoni, carrozze e un esercito di bambini biondi. Ogni volta, tutte le volte. Poi sono arrivate le persone in carne, ossa e difetti, e ogni volta invece mi tocca smussare un po’ l’idea che mi ero fatta prima di che cosa fosse amore, per aggiungere elementi che non avevo mai considerato. Buttando via qualche illusione ho trovato i miei limiti, i limiti di quello che voglio sopportare e quelle quattro cazzate, imprescindibili, che mi fanno stare bene. Non così diverse da quelle che cerco in un’amicizia, non così diverse da quello che sono anche io.

Mi dispiace tanto tanto che ti si siano spezzate le ali, però mi fa piacere che tu ti sia solo scottata con il sole e non finita dentro e carbonizzata per sempre. Aggiusta la tua rotta signorina, punta a un pianeta diverso, uno con un buon habitat per come sei fatta tu e conserva le tue perle, che un giorno avrai un appuntamento romantico molto importante a cui andare e sarà bello che tu abbia la tua collana intatta da indossare col sorriso.

Olimpia