La vita è quella cosa a cui per partecipare devi garantire l’iscrizione all’albo del dolore e pagare la tua quota, senza sapere a quanto ammonterà. Il dolore è quella cosa che ci cammina a fianco, senza sapere quando ci prenderà per mano e che ci rende fragili. Sì, fragili. Il contrario di resilienti.

Per chi ancora non lo sapesse, la resy, è un termine rubato all’ingegneria, per il quale certi materiali non si rompono con l’urto, ma incassano la botta, tornando alla condizione di partenza. Cioè se vogliamo rubare anche alla filosofia possiamo bussare anche alla porta di Cavallo Pazzo Nietzsche e tradurlo con ciò che non ti uccide troppo, ti fortifica. Oppure ancora possiamo fregarcene dei materiali e della filosofia, rimanendo fedeli all’etimologia, e dire che la resy è quella cosa per cui se casco dalla barca allora ci risalgo. Così, con nonchalance, praticamente da asciutto, senza scompigliare un capello, senza affogare un attimo, senza cagarmi sotto che magari non riesco a risalirci su quella dannata barca. Non c’è che dire, è una bella visione eroica questa che ci vede così granitici nel districarci dai dolori. Tutto un cadere da cavallo e risalirci graffiati ma intatti fuori e integri dentro, come se in pratica tutto il mondo ci dicesse che dobbiamo resistere alle disgrazie e uscirne fuori splendenti come coattissime fenici.

Ora io perché sono così contraria al diktat della resilienza, perché sono una rompicoglioni ()? Perché non sopporto i tatuaggi inneggianti al qualunquismo dai segni dell’infinito alle parole modaiole ()? Perché, sopratutto, mi dispiace, e mi dispiace in un punto molto profondo del mio cuoricino, che a botte di positivismo rischiamo di dimenticarci l’incredibile bellezza della vita, gloriosa proprio per il suo disordine, grandiosa proprio per la sua cavolo di caducità.

Tempo fa mi capitò un incontro con un eroe (i pazienti io li chiamo così) che venne da me dicendo che non aveva potuto dire a nessuno che sarebbe venuto da me perché se no avrebbero tutti pensato che era fragile (le parole precise furono in realtà “mezza pippa ar sugo“). E chiaramente non è stato e non sarà l’unico a paragonare una richiesta di aiuto a una dichiarazione di sconfitta. Ma la cosa vale ovviamente pure fuori dalle considerazioni sulla psicoterapia, vale in maniera trasversale, in tutti i contesti in cui la resy infesta la pianta della fragilità come ortica infestante.

Quello che rischia di succedere è che si avrà sempre più paura del dolore, anzi no, non del dolore, ma delle persone che lo provano. Si avrà sempre più paura dei tristi, dei piagnoni, degli scomposti, dei persi, degli scontrollati, dei perdenti. Paura di noi quando saremo simili a loro, quando saremo loro. Io credo che nel modo in cui sta resy ci viene prepotentemente proposta, si dimentichi sempre di onorare il momento di passaggio tra l’inizio e la fine di un problema. Come dire, una fiaba senza intreccio, obbligata al lieto fine.

Non è d’oro il finale, è d’oro ciò che sta in mezzo, la trama che al finale ti ci porta ma non ti ci catapulta come se il tuo dolore non avesse alcuna dignità. Tantissimo si può imparare dai momenti ardimentosi, ma non vedo come si possa pensare di arrivare alla cima senza prima aver scalato (nota del secchione, Cavallo Pazzo Nietzsche amava assai camminare sulle montagne e da sopra poi contemplare il panorama. Soprauomo, non superuomo perché aveva il pisello più lungo di tutti, così per amor delle parole).

Se non la finiamo di perdere interesse nel processo, rischiamo di demonizzare sempre di più i tempi del dolore, che sono lunghi come le ere, come tutte le cose che possono insegnare, dobbiamo prenderci il tempo per capirle. O per capire che non possiamo capirle e dagli stracci che ci sono rimasti, risalire sulla nostra piccola zattera di fortuna a navigare i tempi e le tempeste. Tenendo a mente che se mai usciremo dalla tempesta, non lo faremo rimanendo uguali a come ci eravamo entrati (semi cit del buon Murakami, che può piacere o non piacere, ma nel suo essere orientale, sicuramente smandruppa meno le palle con questa storia della fretta).

Abbiamoci pietà di come siamo fatti, portiamo rispetto ai tempi cupi, portiamo rispetto al modo in cui siamo fatti. Non di obiettivi aziendali da mettere sul tavolo a fine giornata, ma di carne, spirito e mestizia. E di fragilità, di morbidezza, di delicatezza. Siamo come gli scatoloni che trasportano cristalli con sopra l’adesivo, trascinati senza grazia da facchini troppo occupati per trattarci con i guanti.

Se ci togliamo anche la libertà di stare male e non vedere soluzioni, non ci togliamo solo l’occasione per parlare con noi stessi, ma ci tagliamo via proprio una fetta di vita. Anche da triste io posso sorridere ad un anziano che porta a spasso il suo cagnolino anziano pure lui, anche da triste io posso leggere una poesia e capirla, posso capire meglio il dolore del mondo, posso stufarmi di essere triste e cominciare a cercare il bandolo del matassone, tirando da varie parti, incontrando sempre nodi e ad ogni nodo fermarmi a riflettere o anche a piangere se è necessario.

C’è nel dolore sempre un momento di indicibile sconforto, di assoluto smarrimento. Ecco, credo che sia in quei momenti l’unica possibile rinascita. Più che dalle proprie ceneri, dalla foresta in cui ci perdiamo nella ricerca di nuova legna da ardere per tenere viva la fiamma dei giorni.

Fragile è chi pensa che essere fragili sia da deboli e chi vuole solo arrivare, senza prima concedersi di non conoscere la strada. Poi davvero non so voi, ma io preferisco essere nata fiore che essere nata acciaio.

 

Olimpia Parboni Arquati

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