Uno dei miei capricci è quello di poter rispondere che sto di merda quando sto di merda e qualcuno mi chiede come sto.
L’etichetta vuole che se inciampi per la strada, con rapido scatto felino e nonchalance a pacchi, tu ti rialzi, ti sistemi il ciuffo come Sgarbi, ti spolveri il brecciolino dalle ginocchia e acciaccato ma sorridente ti rimetta a camminare con il mento alto verso il sole e lo sguardo all’orizzonte. Ma la verità è che a volte prendi certi pali che ti fanno passare pure la voglia di pettinarti e che se solo si azzarda a smettere di piovere sigilli tutte le tende. Perché la presa a male, quando arriva, arriva forte e scura, e quel panettone Motta ti sembra che te l’abbiano tirato in faccia con tutta la scatola.

Sono quei capitoli delle nostre storie in cui veniamo avvolti da un senso di malessere che non somiglia ai soliti rodimenti della domenica. Quando per esempio ti si rompe lo sciacquone del bagno e passi tutto il pomeriggio a strizzare il pavimento senza risolvere il problema. No, io ti sto parlando di quei capitoli in cui ogni parola sembra una salitona in bici. Quelli in cui lo sciacquone ti si rompe, ma di lunedì mattina; il problema non lo risolvi, però ne crei uno più grande usando uno dei tubi come liana; il giorno prima ti eri perso gli occhiali da vista, il giorno dopo trovi un bell’orzaiolo; hai bucato una gomma e anche il parafango sembra volerti dire qualcosa. E poi baby, questo comunque è solo lo strato che riguarda gli oggetti. La vera guerra è quella che ti tiene sveglio tutte le notti e che è fatta di un disordine molto profondo a livello di tutte le voci dell’oroscopo. Tranne un bel raffreddore, ma per fortuna i primi freddi stanno alle porte.

Durante quelle pagine trovi sempre un sacco di gente che ti dice coraggio, ti dice fatti forza che così non va bene, iscriviti a un bel corso creativo, vai a correre, vatti a fare una vacanzetta che ti vedo così giù, oppure vai da uno psicologo, no?  Ma tu non sei giù, oh no, tu ti senti che cammini bendato in un campo minato fatto di inquietudini. Ogni passo è falso e a ogni mossa c’è qualcosa che scoppia.  Non è mai davvero importante ostinarsi a trovare il motivo unico e solo di questa notte tutta nera, o comunque non è lì che sta l’uscita. Quando capisci che in una parte che pesa sul totale, sei proprio tu lo stronzo che si spara sui piedi, l’ultima cosa che vuoi è un altro stronzo a dirti che non è vero.

Secondo me la vera presa a male merita più rispetto di così. Non me la sento di liquidarla sul tapis roulant di una tamarrissima palestra o con l’acquisto forsennato di scarpe che non metterò mai. Se vengo colta dal sacro fuoco del dolore per il tempo che ho perso e dalla paura tremenda che ne continuerò a perdere, io pretendo di attraversare questa valle di sbagli conciata nel peggiore dei modi. Voglio trascurarmi così tanto da fregarmene di sembrare matta se esco in pigiama, voglio sentire tutte le canzoni più piagnone che ho e voglio scoprirne di nuove più piagnone ancora, voglio alzarmi alle 3 e trascinarmi in cucina per stappare la prima birra, voglio non rispondere a nessuna cosa che illumini il mio telefono, voglio piangere davanti alle pubblicità, voglio che ogni bomba mi faccia tutte le ferite che deve, voglio mangiare solo hamburger e patatine per un mese. Io, se sto di merda, voglio poterlo vedere ogni volta che incrocio uno specchio. Perché è quello l’unico posto in cui devo stare.

Non date mai retta a nessuno che vi dica di aver capito una cosa importante mentre era in vacanza ai Caraibi. Ma prendete per sante tutte quelle citazioni di gente per bene, quelli che dicono che dopo la tormenta stai dai dio o che la salita serve per il panorama. Non c’è un solo saggio che davanti a una presa a male non ti direbbe che ti servirà più di qualunque abbronzatura mai avuta. Niente di buono, di bello, niente che duri a lungo è mai stato pensato in un oceano di belle giornate. Invece le perle che puoi trovare nuotando nel tuo mare di merda saranno il tuo racconto migliore per i prossimi anni. 

La casa in cui ho passato l’ultimo anno dell’università aveva le pareti dipinte di blu e il giardino pieno di tartarughe. Con me c’erano Francesca e Roberto, tra le migliori teste con cui ho mai parlato la prima, enologo appassionato di Tavernello il secondo. E poi c’era il Mitico. Il Mitico soffriva pene d’amore mai viste, svegliava Francesca di notte, placcava Roberto davanti al camino e fermava me ogni volta che stavo sul punto di uscire. Ma un giorno si è alzato dal tavolo e ha detto: “Va bene ragazzi, io vado cinque minuti a piangere in camera e torno“. Abbiamo riso tutti così tanto forte che le lacrime gli sono passate. Il Mitico si merita un grazie, perché da quel giorno, i miei cinque minuti di merda, me li prendo a voce alta e senza vergogna.

Olimpia Parboni Arquati

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